Lupus eritematoso sistemico: nuovi dati su dapirolizumab pegol

Nel corso del convegno annuale dell’American College of Rheumatology sono stati presentati i risultati dello studio di fase III PHOENYCS GO.

Il lupus eritematoso sistemico è una malattia autoimmune che colpisce diverse strutture del corpo, determinando febbre frequente, artrite, rush cutanei, stanchezza e riduzione dei globuli del sangue. Con incidenza europea dell’1‰, questa patologie colpisce in Italia circa 60 mila pazienti, 9 volte su 10 donne.

L’esordio è piuttosto precoce, mediamente tra i 25 e i 35 anni, sebbene nel 16% dei casi possa presentarsi anche prima dei 16 anni e nel 15% dopo i 55. L’andamento della malattia è cronico recidivante. Non c’è cura definitiva, ma esistono terapie che migliorano la sintomatologia e allungano l’aspettativa di vita: si parla di immunosopressori, antinfiammatori e anticorpi monoclonali.

La ricerca non si ferma, volta a individuare farmaci più efficaci o che diano meno effetti collaterali. Tra le nuove molecole sotto studio c’è anche dapirolizumab pegol (DZP), un possibile farmaco anti-CD40L privo di Fc. Pensato per soggetti con lupus da moderato a grave, DZP è al momento oggetto di uno studio di fase III, PHOENYCS GO, conclusosi fa poco e ancora non pubblicato. Alcuni dei risultati dello studio sono stati anticipati durante il congresso annuale dell’American College of Rheumatology, svoltosi a metà novembre 2024 a Washington.

Lo studio

PHOENYCS GO è uno studio multicentrico randomizzato, in doppio cieco, controllato con placebo, che ha visto la partecipazione di 321 pazienti con Lupus eritematoso sistemico sottoposti o a trattamento con DZP o a una terapia standard (TS). Il protocollo di studio ha previsto la somministrazione del farmaco ogni 4 settimane, per un periodo di 2 anni.

L’endpoint primario preso in considerazione è il BICLA, un indice di valutazione composito basato sul British Isles Lupus Assessment Group (BILAG). L’indice è in grado di valutare la risposta al trattamento su tutti gli organi colpiti, fornendo quindi indicazioni preziose.

I primi esiti dello studio mostrano che i pazienti trattati solo con DZP presentano, a 48 settimane, una maggiore risposta alla terapia, più nel dettaglio maggiore del 14,6% rispetto a quella dei pazienti trattati con TS. Il risultato è statisticamente significativo.

Altri esiti positivi riguardano endpoint secondari, come la risposta allo SLE Responder Index (SRI)-4, la scalatura della dose di corticosteroidi assunta, l’indice SLE Disease Activity Index-2K (SLEDAI-2K) e il raggiungimento del Lupus Low Disease Activity State (LLDAS). Tutti questi risultati sono però da considerarsi descrittivi.

Che dire della sicurezza?

Dal momento che le terapie standard comportano spesso effetti collaterali anche importanti, come per esempio l’osteoporosi, è essenziale valutare anche la sicurezza di DZP. Da questo punto di vista, l’assunzione di DZP, soprattutto se associato alle terapie standard, ha mostrato una percentuale maggiore di eventi avversi associati al trattamento, l’82,6% rispetto al 75,0% dei pazienti trattati solo con TS.

In alcuni casi gli eventi avversi sono stati gravi: per esempio, la percentuale di infezioni opportunistiche è superiore nel gruppo DZP rispetto a quello TS. Tuttavia, se si guardano altri eventi gravi, la percentuale è inferiore nel gruppo DZP (9,9%) rispetto che nell’altro (14,8%).

Ultimo dato da tenere in considerazione: l’interruzione al trattamento per eventi avversi è avvenuto nel 4,7% dei pazienti trattati con il farmaco e nel 3,7% di quelli trattati con TS. La ricerca non si ferma qui. I risultati sono incoraggianti, ma richiedono ulteriori approfondimenti: per questo partirà presto un altro studio di fase III, PHOENYCS FLY.