La sindrome dell’intestino corto è una patologia che provoca insufficienza intestinale cronica, ovvero una riduzione della capacità dell’organo di assorbire i nutrienti provenienti dall’alimentazione.
Si tratta di una malattia rara, che colpisce 0,4-6 persone per milione di abitanti, contando in Italia circa 800 pazienti, di cui 150 bambini.
Le cause possono essere acquisite oppure congenite. Nel primo caso, alla base ci possono essere infarto mesenterico (circa il 45%), enteropatia cronica (25%), complicazioni chirurgiche (10%), malattia di Crohn (5-10%).
Nel secondo caso, l’ipotesi più comune è che la patologia sia correlata all’enterocolite necrotizzante, una grave infiammazione intestinale che provoca danno e morte delle cellule e che colpisce quasi esclusivamente i neonati, in genere tra la seconda e la terza settimana di vita.
Serve la nutrizione parenterale domiciliare
Le persone affette dalla sindrome soffrono di disidratazione, denutrizione, affaticamento, squilibri degli elettroliti nel sangue e vanno incontro a indebolimento delle ossa e a una progressiva perdita di peso.
Per ovviare a ciò, è necessaria la nutrizione parenterale domiciliare, una terapia salvavita che reintegra per via endovenosa i nutrienti che l’organismo non riesce ad assimilare.
Questo trattamento, che ha un impatto di rilievo sulla quotidianità degli assistiti, deve essere attentamente gestito perché, in mancanza di una erogazione accurata, può esporre il paziente a complicanze, come infezioni del catetere ed epatopatia cronica evolutiva.
Per supportare le persone che convivono con la malattia, Takeda promuove il progetto Referral to care, un’app che mette in collegamento gli operatori che si occupano di nutrizione parenterale e gli specialisti dei centri di riferimento per la patologia, con l’obiettivo di favorire la presa in carico del paziente con un approccio multidisciplinare, facilitando così il percorso terapeutico.
In pratica, la piattaforma consente di pianificare visite e appuntamenti in day hospital permettendo così all’assistito di accedere rapidamente ai centri specialistici.
Il paziente al centro della rete
«Questa sindrome è molto invalidante, perciò è importante avere contezza di quanti pazienti siano seguiti in modo appropriato, dato che tanti non afferiscono ad ambulatori dedicati», spiega Carolina Ciacci, professore ordinario di Gastroenterologia all’Università di Salerno e direttore dell’Unità Operativa Complessa di Gastroenterologia dell’Azienda Ospedaliera Universitaria San Giovanni di Dio e Ruggi d’Aragona della stessa città.
«L’idea è che il paziente non debba prenotare da solo le visite specialistiche di volta in volta, ma entri a fare parte di un sistema di rete, in cui l’organizzazione viene lasciata alla rete stessa».
«Per tutte le patologie rare è importante creare una rete intorno al paziente, con Centri che abbiano una expertise specifica. Rete, però, vuol dire anche informazione e formazione nei confronti dei medici», aggiunge Giuseppe Limongelli, direttore responsabile del Centro di coordinamento Malattie rare della Regione Campania.
«Il nostro progetto è mirato a portare l’awareness dove arriva con maggiore difficoltà, considerando anche le differenze tra le regioni nella gestione del percorso terapeutico», commenta Stefano Sommella, Gastro & Neuro & Vaccines Business Unit Head di Takeda. «Inoltre, da più di un anno stiamo lavorando al consolidamento della figura del patient journey manager, che studia i problemi con cui si confronta il paziente durante la terapia».