Alzheimer, coinvolti 75 geni

In Italia colpisce almeno 700 mila persone. Una cifra destinata, secondo le più recenti stime, a triplicare nei prossimi trent’anni, a causa del progressivo aumento dell’età media della popolazione. È la malattia di Alzheimer, la forma più comune di demenza, originata da fattori sia ambientali sia genetici.
Proprio quest’ultima componente si è dimostrata particolarmente rilevante nella genesi della patologia e per questo, nel corso degli anni, gli scienziati si sono cimentati con vari studi nel settore.

Un grande studio internazionale

L’ultimo passo in questa direzione è stato compiuto dai ricercatori del consorzio European Alzheimer and Dementia Biobank, coordinato da Jean-Charles Lambert, neuroscienziato dell’Istituto Pasteur di Lille, in Francia, a cui si sono poi aggiunti colleghi statunitensi e australiani.
Gli esperti hanno studiato i dati genetici di 111.326 persone affette dalla malattia o che avevano familiari malati, paragonandoli con 677.663 persone sane.
L’analisi, pubblicata su Nature Genetics, ha consentito di individuare 75 regioni del genoma associate alla patologia, 42 delle quali identificate per la prima volta.

Coinvolta anche la citochina Tnf-alfa

I risultati, che in parte confermano anche quanto già conosciuto, aprono nuove prospettive. Tra le varianti genetiche note correlate alla malattia, figurano quelle relative all’accumulo nel cervello delle proteine beta-amiloide e tau, le quali generano rispettivamente placche e grovigli neurofibrillari con un’azione neurotossica.

La principale novità emersa dalla ricerca è stata, invece, l’identificazione di varianti associate al Tumor necrosis factor (Tnf)-alfa, una citochina infiammatoria coinvolta nella perdita di sinapsi e nei processi di plasticità neuronale.

È stato, inoltre, chiarito che l’eccessiva attivazione delle cellule microgliali, deputate alla rimozione di proteine anomale neurotossiche, può provocare il danno secondario osservato nella patologia.
Infine, è stato elaborato uno strumento che, sulla base del punteggio di rischio genetico, potrebbe stimare la probabilità che persone con disturbi cognitivi possano in seguito sviluppare la malattia di Alzheimer.

Il contributo del nostro Paese

Allo studio hanno partecipato venti centri e atenei italiani, tra cui le Università di Firenze, Milano, Brescia, Bari, Perugia, Torino, la Fondazione Santa Lucia e il Policlinico Agostino Gemelli di Roma, l’Ospedale San Gerardo di Monza, l’Azienda Ospedaliera Universitaria Careggi di Firenze, l’Istituto Neurologico Carlo Besta di Milano.

«L’elevata numerosità dei dati raccolti nel corso della ricerca è un fattore importante per scoprire nuovi loci genetici con un potenziale effetto deleterio», ha commentato Giacomina Rossi, biologa dell’Unità Operativa Complessa Neurologia 5 e Neuropatologia dell’Istituto Besta. «È grazie ad analisi come questa che sarà possibile, in un futuro prossimo, capire le cause della malattia, chiarire i processi patologici coinvolti e soprattutto individuare le componenti molecolari e cellulari da prendere di mira con le nuove terapie».

Paola Arosio