La sclerosi multipla è una malattia neurodegenerativa autoimmune in cui il sistema immunitario danneggia la mielina, la guaina che circonda e isola le fibre nervose, instaurando un processo di demielinizzazione.
Le lesioni, definite placche, interessano il sistema nervoso centrale, in particolare nervi ottici, cervelletto, midollo spinale, e possono evolvere da una fase infiammatoria iniziale a una fase cronica, in cui diventano simili a cicatrici (dette sclerosi).
Tra i sintomi più frequenti della patologia si annoverano disturbi visivi, intestinali, vescicali, cognitivi, oltre a problemi della sensibilità, della coordinazione, del linguaggio.
La forma più comune della malattia è quella recidivante-remittente caratterizzata da episodi acuti (ricadute) alternati a periodi di completo o parziale benessere (remissioni).
A lungo termine i pazienti vanno incontro a una progressione, che conduce alla disabilità, anche se con tempistiche molto diverse, tant’è che, a dieci anni dall’esordio, alcuni sono in sedia a rotelle, mentre altri riescono ancora a correre.
Un ampio studio internazionale
Per fare luce sui fattori che influenzano l’andamento della patologia, è stata avviata una collaborazione internazionale tra oltre 70 istituzioni, guidate dall’Università di Cambridge, nel Regno Unito, e dall’Università della California di San Francisco, a cui l’Italia ha partecipato con l’Università del Piemonte Orientale, l’Ospedale San Raffaele di Milano, l’Università degli Studi di Milano, la Casa sollievo della sofferenza di San Giovanni Rotondo (Foggia), l’ASST Santi Paolo e Carlo di Milano.
Gli scienziati hanno anzitutto consultato i database di due grandi consorzi, l’International Multiple Sclerosis Genetics Consortium e il MultipleMs Consortium, e recuperato i dati di 12mila persone con sclerosi multipla.
Hanno poi realizzato uno studio di associazione sul genoma (genome-wide association study), che, attraverso analisi statistiche, ha correlato specifiche varianti genetiche all’entità della malattia, valutata, per esempio, in base agli anni intercorsi tra la diagnosi e un determinato grado di disabilità.
I due geni nel mirino
Dopo aver vagliato oltre sette milioni di varianti, i ricercatori ne hanno individuata una associata a una progressione più rapida della patologia.
Si tratta di una variante posizionata tra due geni, chiamati DYSF e ZNF638. Il primo è coinvolto nella riparazione delle cellule danneggiate, il secondo contribuisce a controllare le infezioni virali, ma nessuno dei due era stato in precedenza collegato alla patologia.
Per confermare la loro scoperta, gli specialisti hanno studiato la genetica di altri diecimila pazienti, osservando che, in presenza di due copie della variante, la disabilità sopraggiungeva più velocemente.
«Ereditare la variante da entrambi i genitori anticipa di quasi quattro anni la necessità di ricorrere a un ausilio per la deambulazione», specifica Sergio Baranzini, professore di neurologia all’Università della California e co-autore dello studio. I risultati del lavoro, che ha coinvolto in totale ventiduemila assistiti, sono stati pubblicati su Nature.
La speranza di nuove terapie
«Questa ricerca rappresenta un’importante svolta nell’ambito della medicina di precisione, in quanto potrebbe, per esempio, promuovere l’uso di terapie più aggressive già in fase iniziale negli assistiti portatori delle varianti», commentano Sandra D’Alfonso, Filippo Martinelli Boneschi, Federica Esposito, ricercatori italiani coinvolti nello studio.
«Si spera, inoltre, che comprendere gli effetti esercitati dalla variante possa aprire la strada a nuovi trattamenti in grado di prevenire la perdita di mobilità», aggiunge Stephen Sawcer, professore di Neurologia all’Università di Cambridge e co-autore della ricerca, mentre Adil Harroud, primo autore del lavoro, auspica che «lo studio possa davvero offrire l’opportunità di sviluppare nuovi farmaci che aiutino a preservare la salute di tutti coloro che soffrono di sclerosi multipla».
Nel frattempo, sulla scia dei successi ottenuti, la ricerca continua.
Gli esperti stanno, infatti, coinvolgendo ulteriori pazienti nella raccolta di campioni di Dna, aspettandosi di trovare altre varianti che contribuiscono all’inabilità.