Definita dalla Commissione Europea patologia cronica, recidivante e progressiva, l’obesità è oggi curata prevalentemente con un approccio multidisciplinare che include interventi di tipo psicologico-comportamentale, atti a modificare le abitudini alimentari, e se necessario di chirurgia bariatrica.
Al momento l’apporto farmacologico è ridotto, basato per lo più su antagonisti del GLP-1, enzima prodotto dall’intestino che stimola la produzione di insulina e inibisce quella del glutatione, supportando un migliore controllo della glicemia.
Nel corso del convegno della Società Italiana di Medicina Interna si è delineata una panoramica delle novità in questo ambito, destinato a rinforzarsi nel tempo.
Protagonisti di questa rivoluzione sono GLP-1 agonisti utilizzati da soli o, più spesso, in associazione a una o più molecole.
Paolo Sbraccia, professore ordinario di Medicina Interna nel Dipartimento di Medicina dei Sistemi dell’Università degli Studi di Roma Tor Vergata e direttore dell’Unità Operativa Complessa di Medicina Interna e Centro Medico dell’Obesità del Policlinico Tor Vergata, parla «della semaglutide 2,4 mg, un GLP-1 agonista a somministrazione iniettiva settimanale, che consente di perdere oltre il 15% del peso corporeo».
Già sottoposto a trial clinici, il farmaco ha consentito una perdita di oltre il 20% di peso in 1/3 dei soggetti trattati.
Un’altra opzione, oggi sotto studio clinico, è «l’associazione semaglutide-cagrilintide, un analogo a lunga emivita dell’amilina, che consentirebbe di superare anche la soglia 20% di perdita di peso iniziale».
E, ancora, la tirzepatide, doppio analogo GLP-1/GIP, oggi protagonista dello studio SURMOUNT-1, che consentirebbe un calo ponderale del 25% a fronte di una somministrazione settimanale.
Numeri che consentono di imporsi sulla chirurgia bariatrica. Certo, si tratta di farmaci costosi che, come sottolineato dal prof. Sbraccia, «introduce un problema di equità.
Se poi i trial di outcome cardiovascolare dimostrassero un’efficacia di queste terapie nelle popolazioni a rischio, come chi ha già avuto un infarto o un ictus, certamente questo sarebbe un’altra freccia all’arco del trattamento con questi farmaci.
Certo la rimborsabilità, in un sistema che deve essere sostenibile, potrebbe non essere semplice da ottenere, ma magari a fronte di questi risultati una fetta di popolazione potrebbe ottenerla».
Durante il convegno si è parlato anche dei futuri farmaci contro l’obesità a somministrazione orale, che secondo il prof. Sbraccia dovrebbero essere utilizzati solo in alcune nicchie, come chi odia gli aghi.
Un altro interessante approccio di ricerca riguarda il microbiota intestinale: diversamente che in passato, oggi l’approccio della ricerca sull’obesità cerca di individuare sottopopolazioni di soggetti con caratteristiche simili, per poi individuare il miglior approccio terapeutico possibile. Ciò può essere fatto anche rispetto al microbioma.
Da ultimo, la ricerca si concentra su farmaci che possano regolare la gestione dell’organo adiposo, costituito da grasso bianco e bruno: due strutture differenti con funzioni diverse che possono però facilmente trasformarsi l’una nell’altra. Sembra, in particolare, che stimolare la trasformazione del grasso bianco in bruno possa favorire la riduzione del peso corporeo e quindi essere utilizzato nel trattamento dell’obesità.
Stefania Somaré