Prescrivere il farmaco giusto al paziente giusto nel momento giusto e alla dose giusta. In poche parole, effettuare una prescrizione appropriata. Proprio di questo si è parlato durante il webinar dal titolo “Gestione della cronicità evidence based: la medication review”, che si è tenuto il 19 novembre nell’ambito del congresso nazionale della Società italiana di farmacia clinica e terapia (Sifact), giunto quest’anno alla nona edizione.
Come valutare l’appropriatezza
Un tema portato alla ribalta anche da una recente indagine dell’European medicines agency, che evidenzia che ogni anno in Europa si contano 8,6 milioni di ricoveri ospedalieri dovuti a reazioni avverse ai medicinali. La maggior parte di queste ultime si manifesta in pazienti over 65 in politerapia, che assumono cioè almeno cinque farmaci al giorno. E, fatto assai importante, circa il 50% delle ospedalizzazioni sarebbe evitabile con un attento monitoraggio orientato all’appropriatezza prescrittiva.
«Per valutare quest’ultima ci sono vari strumenti», rende noto Luca Pasina, capo dell’unità di Farmacoterapia e appropriatezza prescrittiva dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano. «Tra questi, si annoverano il Medication appropriateness index (Mai), il sistema Stopp (Screening tool of older persons’ prescriptions) and Start (Screening tool to alert to right treatment), apposite liste di farmaci (a oggi se ne contano 36 e quasi tutte includono benzodiazepine e Fans). Il nostro istituto ha, inoltre, ideato Intercheck, uno strumento disponibile su web e su app che può essere impiegato sia nella pratica quotidiana, sia negli studi clinici».
Quando meno è meglio
Nei casi in cui l’assunzione di un medicinale risulti inappropriata occorre procedere con la deprescrizione.
«Si tratta un processo sistematico di identificazione e di discontinuazione dei farmaci in circostanze in cui gli effetti negativi superano i benefici in riferimento agli obiettivi di cura, all’aspettativa di vita, ai valori e alle preferenze del paziente», spiega Vittorio Maio, farmacoepidemiologo alla Thomas Jefferson University di Philadelphia, negli Stati Uniti.
«In particolare, la deprescrizione di un medicinale può essere considerata nei casi di assenza di indicazioni cliniche, mancanza di efficacia, prescrizioni “a cascata”, reazioni avverse, interazioni, insorgenza di controindicazioni. Per effettuarla si può ridurre progressivamente il dosaggio del farmaco in modo da limitare gli effetti derivanti dall’interruzione».
Tra i vantaggi di questa pratica, si annoverano miglioramento dell’aderenza, del quadro clinico e della qualità di vita, oltre a una riduzione dei costi per l’assistito e per il sistema sanitario. A fronte di tali benefici, persistono tuttavia alcune “barriere” alla deprescrizione da parte sia del medico sia del paziente.
Nel caso del primo, gli ostacoli sono costituiti dalla non disponibilità a cessare terapie raccomandate da linee guida o da altri clinici, dalle scarse evidenze sulla deprescrizione, dalla complessità delle condizioni di salute del paziente, dalla mancanza di tempo, dall’ambiguità degli obiettivi di cura, dalla difficoltà di interrompere un farmaco che l’assistito ritiene necessario.
Nel caso del secondo, gli ostacoli sono, invece, determinati dalla convinzione che il medicinale apporti benefici, dal timore di un peggioramento della condizione clinica, da una precedente esperienza negativa, dall’influenza di familiari o caregiver.
Per il deprescribing è possibile utilizzare appositi algoritmi messi a punto per specifiche categorie di farmaci, come per esempio antipsicotici, antiiperglicemici, benzodiazepine, statine.
La giusta forma farmaceutica
A focalizzarsi sulle forme farmaceutiche da utilizzare nei pazienti over 65 è Roberta Ganzetti, farmacista all’ospedale Carlo Urbani di Jesi, in provincia di Ancona. «L’80% dei farmaci si presenta in forme solide orali (compresse, capsule, granulati, polveri), che sono le più diffuse in quanto più semplici da formulare, più stabili chimicamente e più gradite agli assistiti», quantifica. «Tuttavia, non sempre queste forme sono idonee per i pazienti anziani, che spesso soffrono di disfagia o presentano una sonda nutrizionale. Perciò si ricorre spesso alla manipolazione (compounding) della forma solida, che potrebbe però compromettere l’efficacia del medicinale e, quindi, la salute del paziente».
Proprio per questo prima di procedere occorre seguire le indicazioni presenti nel riassunto delle caratteristiche del prodotto, consultare le linee guida, esaminare la letteratura. In assenza di informazioni su tali canali, è necessario procedere autonomamente a un’attenta valutazione delle caratteristiche del principio attivo, della tecnologia farmaceutica, delle proprietà fisiche della forma solida per verificare l’idoneità del medicinale alla manipolazione.
«Nell’ottica di fronteggiare le criticità riguardanti quest’ultima, abbiamo condiviso con i medici alcuni strumenti di supporto», prosegue Ganzetti, «come le Do not crush list e le tabelle comparative per classi terapeutiche. Abbiamo inoltre realizzato, in collaborazione con l’Università di Camerino, la piattaforma Dyspharma, dedicata a farmaci e compounding».
Il farmacista clinico migliora l’assistenza
Ma, oltre che in laboratorio, il farmacista può essere utile anche in corsia. Un’esperienza significativa in tal senso è quella raccontata da Nicola Lombardi, farmacista ospedaliero a Cambridge, che dal 2011 al 2014 ha lavorato all’Azienda sanitaria universitaria integrata di Udine. Qui, all’interno dell’unità operativa di medicina interna, è stato promosso nel 2013 un modello di farmacista clinico di reparto. In particolare, lo studio, di tipo prospettico, ha riguardato 94 pazienti con età media di 83 anni. Il farmacista ha svolto attività di riconciliazione al momento dell’ammissione, di monitoraggio e ottimizzazione dei farmaci prescritti durante la degenza e di riconciliazione alla dimissione. In totale gli interventi sono stati 740, di cui 690 (93,2%) accettati dai medici.
«Le attività svolte dal farmacista clinico hanno migliorato l’appropriatezza prescrittiva», sottolinea Lombardi. «Pertanto il modello dovrebbe essere implementato nel sistema sanitario per migliorare l’assistenza fornita».
Paola Arosio