Il linfoma diffuso a grandi cellule B è il tipo più comune di linfoma non-Hodgkin, che in Italia interessa 28 mila pazienti, con circa 4.500 nuove diagnosi ogni anno. Colpisce più gli uomini delle donne, con un’età media di insorgenza intorno ai 60-65 anni.
La terapia standard di prima linea è il regime chemioterapico Chop (ciclofosfamide, doxorubicina, vincristina, prednisone) associato a rituximab, che risulta efficace nel 65% dei casi. Il restante 35% non risponde al trattamento o sviluppa recidive successivamente, necessitando di una seconda linea di chemioterapia o del trapianto autologo di cellule staminali.
Il problema è che, a causa di età avanzata o comorbilità, molti pazienti non sono idonei per questi trattamenti.
Per loro oggi nel nostro Paese c’è un’opzione terapeutica in più mirata a contrastare con successo la malattia.
L’ente regolatorio ha, infatti, raccomandato il rimborso di tafasitamab, un farmaco immunoterapico umanizzato diretto contro l’antigene CD19 espresso sulla superficie dei linfociti pre-B e B maturi, in associazione a lenalidomide, un immunomodulatore impiegato contro i tumori del sangue.
Risposta completa nel 40% dei pazienti
L’approvazione dell’agenzia regolatoria si base sui risultati dello studio multicentrico in aperto, a braccio singolo L-Mind, condotto su 81 pazienti affetti dal linfoma recidivante o refrattario, con un’età mediana di 72 anni, di cui 54% uomini e 46% donne.
Il numero medio di terapie precedenti era due, con 40 pazienti (49,4%) che avevano ricevuto una sola terapia precedente, 35 pazienti (43,2%) due terapie, cinque pazienti (6,2%) tre terapie, uno (1,2%) quattro terapie. Tutti gli assistiti avevano ricevuto un precedente trattamento con anti-CD20. Dopo tre anni, il 57,5% dei partecipanti alla ricerca ha mostrato una risposta al trattamento.
Di questi il 40% ha evidenziato una risposta completa e il 17,5% una risposta parziale. La durata mediana della risposta è stata di 43,9 mesi dopo un follow-up minimo di 35 mesi. Dopo un tempo mediano di follow-up di 42,7 mesi, la sopravvivenza globale mediana si è attestata sui 33,5 mesi.
Effetti collaterali
Nel corso dello studio, le reazioni avverse più comuni sono state infezioni (73%), neutropenia (51%), astenia (38%), anemia (36%), diarrea (36%), trombocitopenia (31%), tosse (26%), edema periferico (24%), piressia (24%), appetito ridotto (22%).
L’effetto collaterale grave più comune è stato, invece, l’infezione (26%), tra cui infezione polmonare (7%) e neutropenia febbrile (6%). Il 15% dei pazienti ha dovuto interrompere la terapia a causa di una reazione avversa.
Paola Arosio