Le nuove frontiere delle terapie antivirali. Il caso dell’epatite delta

I virus e i batteri sono stati protagonisti indiscussi della scena degli ultimi anni. Al contempo, come è noto, si è assistito e tuttora si assiste a fenomeni crescenti di antimicrobico e farmaco-resistenza, risultati questi di capacità adattive sviluppate da virus e da alcuni microorganismi.

Tutto questo è emerso con particolare chiarezza nel periodo pandemico rispetto al Sars-CoV-2, ma può essere replicato anche in altri contesti. Il tema è stato oggetto di attenzione in occasione del 44° Congresso SIFO che ha dedicato all’argomento una specifica sessione, con focus sull’epatite delta e sull’HIV.

Le nuove frontiere delle terapie antivirali sono state oggetto di una specifica sessione di approfondimento in occasione del 44° SIFO. La sessione ha prestato particolare attenzione al virus dell’epatite delta e all’HIV.

Il caso dell’epatite delta

Il virus dell’epatite delta è stato scoperto nel 1977. Si tratta probabilmente del più piccolo virus esistente, responsabile della più grave forma di epatite cronica, con gli esiti peggiori in termini di cirrosi epatica ed epatocarcinoma.

L’agente infettivo dell’epatite delta è noto come HDV: viene classificato tra i virus ‘satelliti’, i quali, per potersi replicare, hanno bisogno di un altro virus. Il virus dell’epatite delta, nello specifico, necessita del virus dell’epatite B per poter infettare le cellule epatiche. Il soggetto quindi colpito da epatite delta è, o è stato colpito anche da epatite B, cioè dal virus Hbv.

Alcuni studi hanno mostrato che, in Europa e Stati Uniti, tra il 25 e il 50% dei casi di epatite fulminante che si pensava fossero riconducibili al virus dell’epatite B, erano in realtà, causati dal virus delta. In entrambi i casi l’infezione può diventare cronica; tuttavia, nel caso del virus HDV presenta generalmente un decorso più severo rispetto a quella da virus B, evolvendo in cirrosi e carcinoma epatocellulare.

Infezione: due modalità

L’epatite delta può presentarsi come infezione simultanea all’epatite B, manifestando segni clinici simili a quelli del virus HBV. Diversamente, può manifestarsi come sovra-infezione D in un paziente cronico di HDV. In questo caso può assumere una forma acuta e talvolta fulminante. La modalità di trasmissione è la medesima dell’epatite B; l’incubazione oscilla tra 2 e 8 settimane.

Genotipi e prevalenza

Sono stati identificati 3 genotipi di HDV. Il genotipo I è quello maggiormente diffuso, il genotipo II è stato rilevato in Giappone e Taiwan, mentre il genotipo III è presente solo in Amazzonia.
A livello globale si stimano circa 10 milioni di soggetti infetti.

A livello italiano la stima è di circa 10-15 mila infetti. Per lo più dovrebbe trattarsi di italiani non autoctoni – dal momento che nel nostro Paese l’introduzione della vaccinazione obbligatoria risale al 1991, elemento questo che azzera la presenza del virus negli under40 – o di soggetti appartenenti ad altre fasce anagrafiche.

Diagnosi

Nel paziente, il virus si presenta con febbre e marker epatici. La diagnosi di infezione delta viene fatta mediante il riscontro dell’acido nucleico virale – HDV RNA – nel siero, o mediante la presenza di antigene virale (HDAg) in campioni di tessuto epatico.
La popolazione più a rischio è quella che fa uso di droghe, ha rapporti sessuali multi-partner non protetti, i cirrotici e coloro con infezione Hcv. L’epatite delta si caratterizza per una progressione rapida e per un danno epatico enorme che in pochi anni porta a cirrosi ed epatocarcinoma.

Terapie

Premesso che la vaccinazione contro l’epatite B protegge anche contro il virus delta, nel corso degli anni sono stati tentati diversi approcci terapeutici all’epatite delta, quasi tutti deludenti. Attualmente l’interferone è considerato il farmaco più promettente, anche se richiede alti dosaggi e un periodo di terapia prolungato a oltre 12 mesi. Allo studio ci sono attualmente nuove molecole che hanno dato risultati incoraggianti negli animali.
Il trapianto del fegato è invece un’opzione valida in quei pazienti che presentano malattia cronica scompensata, tanto che gli esiti di sopravvivenza a 5 anni sono superiori a quelli osservati per altre forme di epatite.