Cancro ovarico, chemioterapia intraperitoneale ipertermica migliora gli esiti

La chemioterapia intraperitoneale ipertermica (Hyperthermic intraperitoneal chemotherapy, Hipec), costituita da soluzione salina e cisplatino, potrebbe essere un valido trattamento per il cancro all’ovaio, una neoplasia a elevato tasso di recidiva.

La somministrazione avviene direttamente nell’addome con un effetto localizzato, mentre l’ipertermia esercita un’azione citotossica, migliora la penetrazione dei principi attivi nel tessuto, aumenta la sensibilità ai composti del platino.

In precedenza, lo studio Ovhipec-1, di fase 3, in aperto, randomizzato, controllato, aveva già dimostrato l’efficacia della terapia a 4,7 anni. Ora la medesima ricerca, continuando il monitoraggio dei pazienti, ha evidenziato i risultati a lungo termine.

Uno studio su oltre 240 pazienti

Lo studio, pubblicato di recente su Lancet Oncology, ha reclutato tra il 2007 e il 2016, in otto centri nei Paesi Bassi e in Belgio, 245 pazienti di età compresa tra 18 e 76 anni con cancro epiteliale dell’ovaio al terzo stadio, non progredito durante tre cicli di chemioterapia neoadiuvante con carboplatino e paclitaxel.

I ricercatori hanno diviso le partecipanti in due gruppi: 123 sono state sottoposte a chirurgia di intervallo, 122 a chirurgia di intervallo più Hipec. Quest’ultima è stata eseguita al termine dell’intervento ad addome aperto. In concreto, gli operatori hanno fatto circolare la soluzione salina riscaldata a 40-42°C nella cavità addominale per 90 minuti.

Hanno, quindi, aggiunto il cisplatino in tre fasi: 50% della dose all’inizio, 25% dopo 30 minuti, 25% dopo 60. Per prevenire la nefrotossicità hanno anche somministrato tiosolfato di sodio durante e dopo la procedura.

Efficacia a dieci anni

Dopo dieci anni, la sopravvivenza mediana libera da progressione è risultata di 14,3 mesi nel gruppo sottoposto a chirurgia più Hipec e di 10,7 mesi nel gruppo sottoposto al solo intervento chirurgico. Il tasso di sopravvivenza libera da progressione è risultato rispettivamente del 12,3% e del 6,6% a cinque anni e rispettivamente del 10,1% e del 6,6% a 10 anni.

La sopravvivenza mediana globale si è, invece, attestata a 44,9 mesi nel gruppo assegnato a chirurgia più Hipec e a 33,3 mesi in quello sottoposto al solo intervento. Il tasso di sopravvivenza è risultato rispettivamente del 36,9% e del 19,7% a cinque anni e rispettivamente del 16,1% e del 10,9% a 10 anni.

La maggior parte delle pazienti (82% nel gruppo trattato con chirurgia più Hipec e 85% nel gruppo sottoposto al solo intervento) ha ricevuto un ulteriore trattamento antitumorale, soprattutto chemioterapia a base di platino e chemioterapia non a base di platino.

In proposito, gli autori dello studio hanno precisato che «le terapie successive per la recidiva sono risultate uguali nei due gruppi di trattamento. Pertanto, è improbabile che il miglioramento osservato nella sopravvivenza globale sia attribuibile a queste ultime».

Una successiva analisi ha evidenziato che le pazienti con Brca 1 e 2 sembravano trarre minore beneficio dall’Hipec rispetto alle pazienti senza mutazione, ma servono in proposito ulteriori valutazioni.

Gli studi proseguono

Per fortuna gli studi non si fermano. A seguito dei risultati positivi di Ovhipec-1, i ricercatori hanno, infatti, avviato la ricerca internazionale Ovhipec-2 per valutare l’aggiunta di Hipec alla chirurgia primaria in pazienti con cancro ovarico al terzo stadio.

Sono, inoltre, in corso alcuni studi per valutare l’uso di Hipec in combinazione con altre terapie, come i farmaci inibitori di Parp, l’immunoterapia, la chemioterapia intraperitoneale adiuvante. Prospettive future includono anche la ricerca di biomarcatori per prevedere la risposta di un paziente all’Hipec.

Il parere delle pazienti

Un plauso a Ovhipec-1 e agli ulteriori studi in corso viene da Eliana Merlino, vicepresidente dell’Associazione lotta al tumore ovarico (Alto), che sottolinea, però, che occorre fare di più.

«È urgente trovare nuove strategie terapeutiche efficaci e mirate per curare le frequenti recidive del cancro all’ovaio», spiega. «Anche se inizialmente la maggior parte delle donne, dopo chirurgia e chemioterapia, sperimenta una remissione di malattia, oltre l’80% andrà incontro a una recidiva.

Saranno allora riproposte le chemioterapie tradizionali e, a seconda dei casi, altri farmaci, come antiangiogenici e inibitori di Parp. Queste terapie offrono un intervallo libero da malattia più o meno lungo, ma poi sopraggiungerà una nuova recidiva, che verrà affrontata con le stesse classi di farmaci. L’intervallo tra le recidive diventerà sempre più breve, finché il tumore svilupperà meccanismi di resistenza. A questo punto non c’è più niente da fare.

Di recente, grazie ai progressi della scienza, per altri tumori in stadio avanzato sono stati resi disponibili farmaci mirati, che aprono la prospettiva di una effettiva cronicizzazione della patologia e, in alcuni casi, anche di una guarigione. Per il cancro ovarico questo ancora non accade: perciò sono indispensabili più finanziamenti per la ricerca contro la malattia».