La piastrinopenia severa – o trombocitopenia, ovvero una riduzione importante della conta delle piastrine nel sangue, nella sua forma più severa è la complicazione ematologica più frequente per chi è già affetto da epatopatia cronica, cioè da malattie del fegato che, come la cirrosi epatica, oggi colpiscono circa 29 milioni di persone in Europa.
È una condizione che si verifica quando il numero di trombociti (piastrine) circolanti nel sangue è inferiore alle 50.000 unità per microlitro e ha una prevalenza che, in presenza di cirrosi, può verificarsi in oltre il 78% dei pazienti.

Questa patologia espone chi ne è affetto a un rischio di sanguinamento in semplici procedure diagnostiche, oltre che a ritardi nelle cure e mancati interventi, e all’utilizzo di terapie sub-ottimali che non danno i risultati attesi e rappresentano un grave problema di sanità pubblica.

«In un fegato cirrotico il flusso del sangue, di solito accolto in maniera fluida, ha alterazioni strutturali importanti nel tessuto fibrotico che portano a congestionare la milza, che è il filtro per i globuli bianchi, i globuli rossi e soprattutto per le piastrine, che in questa condizione vengono “sequestrate” alterando il processo di coagulazione», spiega Umberto Vespasiani Gentilucci, professore associato di Medicina Interna, Unità di Epatologia, Policlinico Universitario Campus BioMedico di Roma.

«Questo comporta l’esposizione dei pazienti a un incrementato rischio di sanguinamenti interni durante le procedure invasive sia di natura diagnostica che interventistica, anche se di modesta entità.
È sempre più grande l’esigenza di accedere a nuove potenzialità terapeutiche per non dover rallentare o rimandare le cure o, addirittura, impedire che i pazienti possano proseguire correttamente il loro percorso terapeutico».

La necessità di incrementare il numero di piastrine del paziente prima di un intervento ad alto rischio emorragico, viene affrontata con la trasfusione piastrinica, ma questa soluzione si rivela spesso inadeguata e inefficace per diversi fattori.

«A oggi dal punto di vista terapeutico l’unica opzione è la trasfusione di piastrine, ma spesso la disponibilità nelle strutture sanitarie è inesistente o scarsa, e in ogni caso vi sono comunque rischi infettivi», spiega il Domenico Alvaro, professore ordinario di Gastroenterologia, Università La Sapienza, Roma.
«Inoltre il sovraccarico emodinamico e la sua efficacia sull’aumento delle piastrine non è prevedibile, e la trasfusione non arriva a compensarne totalmente la carenza, perché la successiva elevazione del numero di piastrine supera di poco la soglia dei 50 mila e spesso dura pochissimo tempo».

Tutte queste problematiche rappresentano il contesto all’interno del quale si inserisce una nuova soluzione terapeutica.
Lusutrombopag è un piccolo agonista molecolare del recettore della trombopoietina umana che attiva la produzione di piastrine endogene, in grado di stimolare l’aumento della conta piastrinica oltre la soglia delle 50 mila unità, con un’efficacia che sfiora il 90%.

Il farmaco si può assumere per via orale (una compressa al giorno per sette giorni) a domicilio del paziente, prima di procedure invasive, evitando così trasfusioni piastriniche.
Questa nuova opzione terapeutica può quindi offrire grandi vantaggi ai pazienti e migliorare il loro percorso di cura e la loro qualità di vita, ma anche essere di aiuto agli specialisti e al sistema sanitario.

«Il paziente deve assumere il farmaco oralmente per una settimana, senza bisogno di recarsi in ospedale. Viene ospedalizzato fra il nono e il quattordicesimo giorno per essere sottoposto all’intervento», spiega il prof. Vespasiani Gentilucci.
«Grazie al lusutrombopag si ottengono livelli di piastrine molto più elevati, nel senso che si va oltre le 50 mila piastrine e per un periodo piuttosto lungo e stabile.
In questo modo si protegge il paziente dall’eventualità di sanguinamenti che possono verificarsi anche nel periodo peri-procedurale, ovvero anche nei giorni successivi alla procedura.
Gli studi che abbiamo a disposizione sul lusutrombopag dimostrano che questo farmaco è estremamente efficace per ottenere un ampio numero di piastrine senza doverle traspondere».

La nuova molecola può avere dei risvolti positivi nella vita dei pazienti e limitare i disagi e le problematiche con cui convivono quotidianamente, ma anche rappresentare una grande opportunità per il SSN, riducendo i costi di intervento e di presa in carico del paziente, che non deve essere ricoverato parecchi giorni prima dell’intervento.

«Dal punto di vista organizzativo il fatto di poter dispensare il farmaco direttamente al paziente, che lo può assumere in autonomia per sette giorni presso il proprio domicilio, rappresenta sicuramente una grande soluzione, perché significa non doverlo ricoverare in ospedale, quindi abbattere le liste di attesa e poter pianificare in modo migliore il futuro della presa in carico dei pazienti», spiega Enrica Maria Proli, direttore U.O.C. Farmacia del Policlinico Umberto I di Roma.

«Inoltre, c’è una maggiore flessibilità nella programmazione dell’intervento, visto che grazie all’elevato numero di piastrine prodotte si può intervenire anche fino a una settimana dopo l’assunzione del lusutrombopag.

Da un’analisi di impatto economico sul SSN, per i pazienti residenti in Regione Lazio e affetti da epatopatia, si è calcolato un risparmio diretto corrispondente a -33% sulla spesa sanitaria che si avrebbe con la trasfusione di piastrine e il necessario ricovero, che corrispondono a circa 400 mila euro.

A livello nazionale il risparmio si aggira intorno al 19%, quindi anche in questo caso un risparmio in proporzione comunque molto elevato.
Quindi questa nuova tecnologia oltre a essere utile per i pazienti, per pianificare e rendere disponibili le eventuali sale operatorie in maniera più semplice, può anche servire per razionalizzare le risorse economiche a disposizione».

Giovanni Felice