Nel corso dell’ultimo Congresso AISF – Associazione Italiana per lo Studio del Fegato sono stati proposti nuovi protocolli terapeutici per il trattamento dell’epatocarcinoma, una delle patologie tumorali con mortalità più alta del mondo e per l’epatite delta, la meno nota, forse, ma certamente quella a maggior progressione e quindi più pericolosa.
Andiamo con ordine. Si stima che entro il 2030 le già alte morti annue per epatocarcinoma, pari a 800 mila, diventeranno un milione: un incremento dettato dalla comparsa sempre più frequente del tumore anche in pazienti non cirrotici ma con steatosi non alcolica del fegato, dalla sua alta aggressività e dalla mancanza di una cura efficace. La novità sta proprio qui: sono da poco stati approvati, o sono in fase di approvazione, alcuni farmaci che promettono di dare ai soggetti colpiti da questo tumore maggiori probabilità di sopravvivenza.
Si parla di farmaci antiproliferativi e di terapie biologiche, come l’immunoterapia, che si affiancano all’unico farmaco sin qui disponibile, il Sorafenib.
Approfondisce la questione Giuseppe Cabibbo, del Comitato Scientifico AISF: «la cura dell’epatocarcinoma si trova oggi a un punto di svolta poiché, nel breve periodo, è previsto l’arrivo di numerose terapie innovative come le combinazioni basate sull’immunoterapia.
Tra queste, il farmaco immunoterapico Atezolizumab, in combinazione con Bevacizumab, fornisce tra le terapie sistemiche la più lunga sopravvivenza globale osservata in uno studio di fase III in prima linea nell’epatocarcinoma non operabile, e sarà lo standard di cura anche in Italia già nei prossimi mesi.
Queste terapie saranno in grado di incidere notevolmente sull’aspettativa di vita dei soggetti affetti da epatocarcinoma.
L’analisi aggiornata dello studio “Imbrave150” (doi: 10.1056/NEJMoa1915745) ha infatti mostrato una sopravvivenza libera da progressione di malattia del gruppo trattato con la combinazione Atezolizumab più Bevacizumab di 6,9 mesi, significativamente superiore a quella del gruppo trattato con Sorafenib (4,3 mesi); ancora più rilevanti i dati relativi alla sopravvivenza complessiva che è risultata essere 19,2 mesi nel gruppo trattato con la combinazione di Atezolizumab più Bevacizumab e di 13,4 mesi nel gruppo trattato con sorafenib.
I risultati aggiornati sono stati coerenti con quelli dell’analisi primaria e supportano l’uso della combinazione delle terapie».
Novita, come accennato, anche per il trattamento dell’epatite delta, derivazione dell’Epatite B, ma con una velocità di progressione fino a 10 volte più elevata: è infatti già stato approvato a livello europeo dall’EMA il bulevirtide.
Si tratta di un farmaco «unico per meccanismo d’azione e somministrazione. Rappresenta un progresso rivoluzionario perché permette di trattare anche senza interferone pazienti che prima non potevano ricevere alcuna terapia», evidenzia il prof. Pietro Lampertico, dell’Università degli Studi di Milano.
«Gli studi in monoterapia suggeriscono la possibilità di avere per adesso alla settimana 24 una riduzione di circa 2-2,5 logaritmi di viremia, con una risposta virologica nel 50% e una risposta biochimica nel 50% dei pazienti».
Si tratta, in sostanza, di un farmaco che blocca la replicazione del virus, normalizzando le transaminasi e aumentando la sopravvivenza dei pazienti, che sono spesso donne sotto i 45 anni di età.
L’introduzione di queste nuove terapie richiederà ovviamente un nuovo approccio da parte dei clinici e dei farmacisti ospedalieri, richiedendo anche un lavoro in equipe multidisciplinare.
Stefania Somaré