Epatite delta, primo congresso internazionale a Milano

Era il 1977 quando Mario Rizzetto, epatologo a Torino, scoprì il virus Hdv, che provoca l’epatite delta cronica, una malattia molto aggressiva, che spesso evolve in cirrosi, scompenso epatico, insufficienza del fegato, epatocarcinoma, rendendo necessario un trapianto d’organo.

Fino a poco tempo fa, per trattare i pazienti affetti dalla patologia, che sono tra i 10 e i 20 milioni nel mondo e circa 10 mila in Italia, non esistevano medicinali specifici. Oggi sono, invece, disponibili importanti novità terapeutiche, in grado di offrire nuove speranze ai malati.
Di questo si è parlato a Milano nel corso del Delta Cure International Meeting, il primo congresso internazionale dedicato alla malattia.

Il farmaco bulevirtide

Uno dei farmaci al centro del dibattito è stato bulevirtide, un entry inhibitor che blocca il recettore polipeptide co-trasportatore del sodio taurocolato (Ntcp), inibendo di conseguenza l’ingresso del virus nelle cellule epatiche.

«L’Hdv è un virus molto particolare», chiarisce Pietro Lampertico, professore ordinario di Gastroenterologia all’Università degli Studi di Milano e direttore dell’Unità Operativa di Gastroenterologia ed Epatologia del Policlinico della stessa città.
«Si tratta, infatti, di un virus difettivo, che ha cioè bisogno di una porzione di un altro virus, quello dell’epatite B, per potersi replicare. Ecco perché tutti i pazienti con epatite delta hanno sempre anche l’epatite B».

Lo studio registrativo di fase 3 Myr301, presentato all’International Liver Congress, tenutosi a Londra nel giugno 2022, ha evidenziato che, dopo 48 settimane di trattamento con bulevirtide, somministrato una volta al giorno tramite iniezione sottocutanea, il 70% dei pazienti ha registrato una consistente riduzione della viremia, il 50-60% ha mostrato una normalizzazione degli enzimi transaminasi, il 45% ha ottenuto una risposta combinata virologica e biochimica.
Risultati favorevoli sono stati rilevati anche negli assistiti con cirrosi epatica avanzata, dunque molto difficili da trattare.

Del resto, il medicinale era già stato approvato dalla Commissione europea nel luglio 2020 sulla base di due studi preliminari di fase 2. Il primo, Myr202, è stato condotto per 24 settimane, il secondo, Myr203, per 48 settimane.

Al momento il farmaco non ha ancora ricevuto il via libera in Italia da parte dell’ente regolatorio. Ad auspicare l’approvazione è lo stesso Lampertico: «Speriamo che, considerate la gravità della malattia e la rapidità con cui progredisce, questo farmaco venga tempestivamente approvato, rendendolo così disponibile per tutti i pazienti italiani».

Altre terapie in fase di studio

Bulevirtide, quindi, ma non solo. Durante il congresso si è parlato, infatti, anche di altre strategie terapeutiche in fase di valutazione contro l’epatite delta.
La prima strategia è costituita da lonafarnib potenziato con ritonavir, un trattamento orale da utilizzare in monoterapia o in combinazione con l’interferone.
La seconda strategia prevede, invece, l’impiego di interferone pegilato lambda, in monoterapia per un anno.

La terza strategia include le nuove terapie sviluppate per l’epatite B, che potrebbero rivelarsi utili anche per chi soffre di epatite delta. In quest’ambito i ricercatori stanno, in particolare, analizzando due approcci mirati a bloccare la produzione dell’antigene di superficie dell’epatite B attraverso la modulazione dell’Rna messaggero: uno utilizza la small interfering Rna technology, l’altro si basa sull’impiego di farmaci antisenso.

Paola Arosio