All’ottavo posto su 25 Paesi UE per capacità di ricerca e innovazione nelle Life Sciences. Così si posiziona l’Italia nella nuova edizione del Libro Bianco sulle Scienze della Vita in Italia, secondo la valutazione dell’Ambrosetti Life Sciences Innosystem Index 2023 (ALSII 2023), un indice composito per la valutazione di competitività e performance degli ecosistemi di innovazione, specificatamente in progetti, attività e strutture in ambito di scienze della vita implementati in contesti europei, realizzato dalla Community Life Sciences di The European House Ambrosetti.
Analisi e volume sono stati presentati nel corso della nona edizione del Technology Life Sciences Forum 2023, a Milano.
Un ranking da perfezionare
Non è un caso se la sanità, nel nostro Pease, sia ritenuta un fiore all’occhiello. Alle spalle ci sono strutture, da ospedali a start-up e biotech, expertise, tecnologia, innovazione. E ampi studi di ricerca che osano spingersi oltre gli ambiti di indagine più tradizionali, guidati da curiosity driven. Ciò che fa la differenza nel pensiero e nell’approccio scientifico.
E i risultati arrivano: l’Italia all’ALSII, un indice composito strutturato su 4 dimensioni (e valori) – capitale umano, vitalità delle imprese, risorse a supporto dell’innovazione, efficacia dell’ecosistema di innovazione – articolati in 13 KPI (Indicatore Chiave di Prestazione) – ha un buon posizionamento, migliorato nell’ultimo anno, entro i 10 migliori Paesi UE in cui si fa ricerca, sui 25 considerati.
In un’analisi condotta su un arco temporale di 8 anni, l’Italia è all’8° posto del ranking, con un punteggio di 4,42 su 10, guadagnando una posizione rispetto al 2020 e registrando il miglior indice di crescita (+11,7%), ma ancora quasi fanalino di coda della top ten. In netto distacco da Danimarca (medaglia d’oro con 7,06 punti), Germania (argento con 6,56 punti) e Belgio (bronzo con 6,12), e dietro anche a Svezia (5,81), Francia (5,61), Paesi Bassi (5,12) e Spagna (4,78).
«È un’Italia con alcune eccellenze», ha commentato Valerio De Molli, managing partner e CEO The European House – Ambrosetti, «e molte aree di miglioramento», fra queste il capitale umano: solo al 12° posto per numero di laureati in materie STEM (Science, Technology, Engineering e Mathematics), pari al 18,3% ogni 1.000 abitanti, contro il 29,5% della Francia e il 24% della Germania, al 14° in Life Sciences e al 15° per la quota di occupati nelle scienze della vita, ancora sottodimensionati.
L’Italia è avanti, invece, nelle variabili output, riferibili cioè alla produzione di nuove idee al loro impatto economico: vanta il secondo posto per numero di pubblicazioni scientifiche nelle scienze della vita (56.700), il primo per citazioni delle pubblicazioni (90.700) e il terzo per export di prodotti farmaceutici e medicali.
La produzione scientifica è premiante. Ai numeri delle pubblicazioni corrispondono effettivi risultati: i ricercatori italiani sono i secondi più premiati in UE, dietro ai tedeschi, con gli ERC (European Research Council) starting grant, tra i riconoscimenti più prestigiosi a livello europeo, a supporto dell’eccellenza scientifica: 57 grant ricevuti dai nostri “cervelli” solo nel 2023. Un valore aggiunto per il nostro Paese, ma le ricerche – purtroppo – vengono poi condotte all’estero, dove nella gran parte dei casi, i ricercatori italiani, una volta vinto il grand, scelgono di restare.
L’Italia, secondo il Libro Bianco, è l’unico tra i grandi Paesi benchmark UE ad avere, infatti, un saldo netto negativo (-25 nel 2023) tra grant ottenuti per Paese e i grant ottenuti per nazionalità del Principal Investigator: un dato in continuità con quanto osservato nel 2022 che sottolinea la difficoltà a trattenere i migliori talenti entro i confini nazionali.
Diverse le cause, secondo una indagine conoscitiva condotta da Ambrosetti fra i vincitori di grant ERC, che spingono i ricercatori a non rientrare nello Stivale: la mancanza di meritocrazia (84%), e dunque la difficoltà di fare carriera, salari bassi e poco competitivi con il resto d’Europa (72%), troppa burocrazia, farraginosità nel reclutamento di ricercatori, ostacoli nella formazione di team di ricerca.
Scegliendo altri Paesi, invece, si confrontano con ecosistemi internazionali attrattivi soprattutto per la presenza di finanziamenti (84%), alta qualità della ricerca scientifica (72%), indipendenza nel portare avanti i propri progetti di ricerca, affiancati dalla facilità di accesso e progressione nella carriera accademica (56%). Motivi per cui 8 ricercatori su 10 non considerano un rientro in Italia.
È il momento di agire
Il tempo è già scaduto ma «ci sono ampi margini di miglioramento – conclude Anna Maria Bernini, ministro dell’Università e della Ricerca – che possono contare su una consolidata ricerca, di eccellenza, favorita da una offerta formativa di qualità e di assoluto livello che ha fatto la differenza in Italia e nel mondo.
Ciò che penalizza il nostro Paese è l’eccessiva istituzionalizzazione; occorre mettere a regime un ecosistema di azioni migliorative, a partire dalla selezione dei migliori modelli internazionali di ricerca adattandoli al contesto italiano, favorire la continuità di finanziamenti, effettuare una semplificazione delle complessità burocratiche che rallentano e allontanano dal risultato e dai tempi consoni alla ricerca.
Stiamo lavorando, anche in un’ottica di semplificazione, sul rapporto di ricerca e sul rapporto di capitale umano di università e enti di ricerca e enti di ricerca pubblici vigilati dal nostro Ministero. Alcuni settori delle Life Science andranno promossi e potenziati, quali farmaci tecnologici e terapia genica, per esempio. Da qui al 2026 sarà importante creare le condizioni affinché gli ecosistemi mostrino di essere efficaci, efficienti e in grado di autorealizzarsi e autodeterminarsi.
Tra le azioni prioritarie abbiamo in agenda investimenti su infrastrutture che possano ampliare la comunità scientifica in Italia, in nuove tecnologie approfittando dei fondi del PNRR e la strutturazione di una governance che non penalizzi, ma promuova, l’innovazione».