Colangite biliare primitiva, rischio indisponibilità in UE dell’acido obeticolico 

L’acido obeticolico, usato per controllare la progressione della colangite biliare primitiva (CBP), una malattia rara del fegato che interessa in prevalenza le donne, rischia di non essere più disponibile in Europa. In Italia a rischio 1.400 pazienti. Il tema è stato al centro di una conferenza stampa promossa da OMAR – Osservatorio Malattie Rare lo scorso 10 settembre.

La colangite biliare primitiva, è una malattia epatica autoimmune rara e progressiva che danneggia i piccoli dotti biliari, causando danni al fegato che possono portare a insufficienza epatica, necessità di trapianto di fegato e morte. La patologia interessa in prevalenza le donne in un rapporto di 9 a 1 rispetto agli uomini, a partire dai 40-45 anni d’età.

Si tratta di una malattia complessa, che può associarsi ad altre malattie autoimmuni, reumatologiche e no. Nel 1987 è stato introdotto l’acido ursodesossicolico come trattamento di prima linea, anche se circa il 40% dei pazienti non risponde.

L’acido obeticolico, introdotto a seguito di una sperimentazione internazionale, disponibile in Italia dal 2017 – Paese in cui il trattamento interessa circa 1.400 pazienti – rappresentava fino a pochi giorni fa l’unica opzione terapeutica possibile.

Acido obeticolico, revoca dell’AIC condizionata e intervento della Corte di Giustizia Europea

Lo scorso 3 settembre ha revocato l’autorizzazione all’immissione in commercio condizionata, ratificando la raccomandazione del Comitato per i Medicinali per Uso Umano – CHMP di EMA. La raccomandazione in oggetto non riporta preoccupazioni circa la sicurezza dell’acido obeticolico e riflette la valutazione del rapporto rischio-beneficio complessivo effettuata dal Comitato, basandosi in gran parte su un singolo studio (il Cobalt) randomizzato controllato con placebo, che presenta bias e limitazioni, senza tenere in debito conto i dati real world raccolti nella pratica clinica e il consenso degli esperti.

Il 5 settembre, la Corte di Giustizia Europea ha sospeso temporaneamente la decisione della Commissione. Ne consegue che fino a nuovo avviso il farmaco potrà continuare a essere prescritto sia a chi già ne faceva uso sia a nuovi pazienti, in regime di rimborsabilità.

«Nel fare le proprie valutazioni e nell’emettere il proprio parere, il CHMP sembra non aver preso in considerazione i dati dello studio di real world evidence Recapitulate, i cui primi dati sono stati pubblicati nel marzo 2023 e ulteriori risultati sono stati presentati al congresso internazionale dell’EASL – European Association for the Study of the Liver, nel giugno 2024», ha sottolineato la prof.ssa Vincenza Calvaruso, segretario nazionale dell’Associazione Italiana per lo Studio del Fegato (AISF).

I dati italiani raccolti dalla comunità scientifica nella pratica clinica, a decorrere dal 2018 su 759 pazienti trattati con l’acido obeticolico in 66 centri, hanno dimostrato un beneficio clinico del farmaco nel ridurre la progressione della malattia e lo sviluppo di danni epatici irreversibili.

Rischi futuri

Tuttavia, se la decisione della Commissione dovesse essere confermata, ne conseguirebbe un ritiro del farmaco dal commercio con la conseguente interruzione del trattamento per tutti quei pazienti che ne beneficiano. Una prospettiva questa che allarma la comunità dei pazienti affetti da questa patologia rara che chiedono venga almeno garantita la continuità terapeutica per i pazienti in trattamento.

Il tema è stato al centro di una conferenza stampa organizzata lo scorso 10 settembre – a ridosso della Giornata Mondiale di sensibilizzazione sulla CBP che si celebra l’8 settembre – dall’Osservatorio Malattie Rare in collaborazione con AMAF Aps Ets – Associazione Malattie Autoimmuni del Fegato e Associazione EpaC ETS e con il contributo non condizionante di Advanz Pharma.

A rischio la vita e la qualità della vita dei pazienti

«Se non si trova subito una soluzione, il rischio è di tornare indietro di oltre 7 anni, a uno stadio precedente all’entrata in commercio di questo farmaco, cioè di una malattia che può avere una progressione, mettendo a rischio la vita delle persone e diminuendone sensibilmente la qualità.

Altri trattamenti sono in fase di sviluppo, ma attualmente non sono ancora disponibili per i pazienti e non sono dimostrati nella pratica clinica. Inoltre, hanno meccanismi d’azione diversi e non sono quindi intercambiabili con l’acido obeticolico.

È pertanto fondamentale che i medici abbiano a disposizione un’ampia varietà di trattamenti per la cura dei pazienti affetti da CBP», ha spiegato la prof.ssa Annarosa Floreani, studiosa senior all’Università di Padova e consulente scientifico all’Irccs di Negrar (VR).

Invocare l’applicazione dell’art. 117.3

Una delle possibili soluzioni discusse, già emersa da due interrogazioni parlamentari presentate dai sen. Elisa Pirro e Ignazio Zullo, membri della Commissione X Affari Sociali, Sanità, Lavoro Pubblico e Privato, Previdenza Sociale, depositate l’8 agosto scorso, è applicare l’art. 117.3 della Direttiva 2001/83 CE, recepito in Italia dall’art. 43 del Decreto del Ministero della Salute del 30 aprile 2015 che prevede che in caso di revoca dell’AIC di un farmaco le autorità nazionali, in circostanze eccezionali, possano continuare a consentire la fornitura ai pazienti già in cura.

Timori e proposte delle associazioni di pazienti

«Alla luce della decisione della Commissione Europea, che potrebbe essere confermata dopo la sospensione, chiediamo che siano tutelate tutte quelle persone che a oggi sono in trattamento con l’acido obeticolico e ne traggono un beneficio, almeno fino a quando non saranno disponibili nuove terapie.

Da considerare anche che questo farmaco non ha dato problemi di sicurezza, negarlo sulla base di uno studio condotto con un bias di metodo è ingiusto verso i pazienti», ha sottolineato Davide Salvioni, presidente dell’Associazione Malattie Autoimmuni del Fegato – AMAF.

Protocolli ad hoc per le malattie rare

«Questo caso presenta diverse anomalie: per esempio, il fatto che negli Usa lo stesso farmaco è regolarmente in commercio; che EMA da una parte raccomanda il ritiro del farmaco, ma nello stesso tempo afferma che i pazienti in terapia possono continuare attraverso programmi di uso compassionevole; che non viene presa nella dovuta considerazione l’opinione dei pazienti e dei loro rappresentanti; che ritirare dal commercio un farmaco dopo 7 anni dalla sua approvazione non è normale», ha constatato Ivan Gardini, presidente dell’Associazione EpaC ETS, evidenziando la necessità di disegnare protocolli di studio diversi per le malattie rare – considerate le difficoltà nell’arruolamento e quelle di condurre studi molto lunghi – che tengano in considerazione i dati di real world evidence.

Si auspica che AIFA, a fronte dei numerosi punti interrogativi, porti avanti autonomamente una serie di approfondimenti prima di procedere a un provvedimento di interruzione terapeutica che mette a rischio la comunità terapeutica che trae benefici dal trattamento.

«È chiaro e normale che i pazienti siano molto preoccupati», ha commentato Ilaria Ciancaleoni Bartoli, direttrice dell’Osservatorio Malattie Rare. «Nonostante gli studi randomizzati, in doppio cieco, controllati con placebo siano considerati il gold standard della ricerca clinica, essi possono essere difficili da condurre nelle malattie rare, soprattutto quando ciò avviene dopo l’autorizzazione all’immissione in commercio e la disponibilità del prodotto, come nel caso dello studio Cobalt. Per una questione etica sarebbe auspicabile una maggiore considerazione dei dati di real world evidence, che in questo caso ci sono (studio Recapitulate)».

Si tratta peraltro del secondo caso di ritiro dal commercio di un farmaco per malattie rare nell’arco di pochi mesi a seguito della revisione dell’AIC condizionata e successiva sospensione della decisione.

Da più parti è stato ribadito che non si può ignorare l’impatto sui pazienti e che, anche in vista di futuri casi analoghi, occorre usare questo tempo per trovare soluzioni che garantiscano continuità terapeutica.