Nella fase più grave della pandemia l’assistenza sanitaria a distanza ha rappresentato uno strumento fondamentale per garantire l’accesso alle cure.
L’emergenza costituita della diffusione del Sars-CoV-2 ha orientato molti servizi sanitari a imprimere un’accelerazione ai programmi di implementazione della telemedicina. Un supporto, quello della consulenza medica a distanza che, come anche indicato in un articolo pubblicato a marzo sul British Medical Journal, può rappresentare una vera opportunità nel mezzo di questa drammatica crisi.
La telemedicina permette di tenere ferme le persone muovendo servizi di cura: un approccio che previene uno dei fenomeni che hanno assunto un ruolo primario nel dilagare dell’epidemia, il contagio del personale sanitario. Sono oggetto di analisi scientifiche, oltre che disamine nelle cronache giornalistiche, i casi di strutture sanitarie che, raggiunte dai primi pazienti positivi, non avrebbero saputo arginare la contaminazione, finendo con il trasformarsi in potenti amplificatori della propagazione.
Un contesto complicato dalla presenza di pazienti fragili, cronici, per varie cause immunocompromessi, esposti a rischi che potrebbero essere evitati mediante verifiche preventive.
Filtrare le priorità per incontrare gli unmet need
A oggi, il monitoraggio dei pazienti domestici si basa su una rete di contatti telefonici predisposti dai medici di medicina generale. Tuttavia, questa soluzione sembra del tutto insufficiente a coprire le esigenze del territorio, oltre a non garantire alcune delle prerogative dei collegamenti video, fra cui l’effetto di rassicurazione.
La dimensione dei bisogni non soddisfatti gioca quasi sicuramente un ruolo nella parziale inefficienza delle procedure di contenimento del contagio e nei tassi di letalità a doppia cifra delle regioni più colpite.
Avere a disposizione sistemi per la rilevazione e la trasmissione dei dati permetterebbe di individuare i casi domestici che richiedono ospedalizzazione immediata, portando a un controllo superiore del territorio e a un numero maggiore di vite salvate.
Per fare fronte a tutte le richieste di intervento si potrebbe istituire un criterio di assegnazione delle priorità. In questo modo solo i casi più problematici finirebbero alla diretta attenzione dei medici, lasciando quelli più di routine (per quanto si possano definire tali le manifestazioni di un’infezione ancora in gran parte ignota come quella che stiamo affrontando) alla gestione da parte di sistemi di intelligenza artificiale. In questa seconda categoria potrebbero essere raggruppati i pazienti in buone condizioni generali ma alla ricerca di consigli generici su Covid-19.
La Cina, il Paese a cui tutti guardano essendo stato il primo al mondo a trovarsi investito dallo tsunami virale e ad attivarsi nella riapertura controllata, ha da subito attivato i servizi di teleconsulto. Una scelta che, stando alle informazioni disponibili a oggi, sembra essere stata strategica nella gestione dell’emergenza.
Una triade per l’innovazione
La contingenza della situazione, che nel nostro Paese ha da subito assunto dimensioni critiche, ha spinto le istituzioni a cercare soluzioni su diversi fronti. In quest’ottica, il viceministro della Salute Pierpaolo Sileri ha presentato un emendamento per il potenziamento dell’assistenza medica da remoto. Una collaborazione fra i tre dicasteri dello Sviluppo Economico, dell’Istruzione, università e ricerca, e dell’Innovazione tecnologica e digitalizzazione ha lanciato l’iniziativa Innova per l’Italia.
In partnership con ministero della Salute, Istituto superiore di sanità e Organizzazione mondiale della sanità e con il supporto di un comitato scientifico multidisciplinare, il progetto ha come scopo immediato l’individuazione delle migliori soluzioni digitali in ambito telemedicina. Le iniziative sono state presentate attraverso una call for contributions partita il 23 marzo e durata tre giorni.
Gli sforzi tecnologici richiesti sono concentrati in particolare verso lo sviluppo di soluzioni quali app e chatbot per la teleassistenza (ossia teleconsulto e televisita) e l’automonitoraggio, inteso come rilevazione e trasmissione di dati quali la temperatura, la pressione arteriosa, il battito cardiaco e la saturazione in ossigeno.
Un contesto che permette al medico di configurare a distanza il quadro clinico del paziente domestico affetto da Covid-19 ma non esclude l’assistenza al malato cronico e la produzione di strumenti di analisi dei dati (quali data analytics e altri supporti dell’intelligenza artificiale) per il monitoraggio attivo del rischio di contagio e il mappaggio della situazione sul territorio, utili nel tracciamento continuo, nell’alerting e nel controllo tempestivo del livello di esposizione al rischio della popolazione.
Cogliere i segnali sul territorio
L’analisi dei dati sulla mortalità ha notevoli implicazioni di interesse in sede di progettazione di politiche di farmacoeconomia e welfare. I dati finora raccolti hanno messo in evidenza i forti scostamenti fra due regioni confrontabili sia sotto il profilo dell’esposizione al rischio sia dal punto di vista della strutturazione del servizio sanitario. Mentre in Veneto la letalità da Sars-CoV-2 sembra attestarsi (alla data di redazione del presente articolo) intorno al 3,3%, in Lombardia i dati conducono a un ben più angoscioso 12,7%.
Una divergenza che potrebbe essere il risultato di un differente approccio all’emergenza Covid-19. L’analisi delle informazioni raccolte sul territorio identifica invece analogie fra la situazione veneta e quella laziale (caratterizzata da una mortalità del 3,8%) e fra il quadro lombardo e quello dell’Emilia Romagna (che ha letalità pari al 10,8%). Numeri considerevoli per aree tradizionalmente note per l’efficienza dei servizi e che spiccano di confronto con i valori relativamente contenuti di regioni che generalmente non brillano per gli stessi requisiti: uno fra tutti, il 2,9% della Calabria.
Questo fenomeno può riconoscere più spiegazioni. Anzitutto, i contagi potrebbero essere molto più numerosi in zone come quelle della Lombardia e dell’Emilia Romagna rispetto a quelli che la situazione di congestione dei servizi sanitari ha permesso di rilevare, malgrado gli sforzi di un sistema che non si è certo risparmiato. Inoltre, tutti i casi di positività non rilevata escludono dall’accesso alle cure molti pazienti fragili, magari inizialmente affetti da una forma apparentemente più lieve della malattia che poi potrebbe subire improvvise acutizzazioni ed essere causa di decesso.
Non basta implementare soluzioni tecnologiche
Se, da un lato, la telemedicina appare come la diretta realizzazione del concetto di smart-working per la categoria degli operatori sanitari e dunque dovrebbe oggi essere attuabile estensivamente, il mancato accesso alla rimborsabilità ne limita di fatto l’applicazione.
Prima dell’emergenza rappresentata dal nuovo coronavirus, la sua diffusione era auspicata al fine di decongestionare le strutture sanitarie, lasciando gli operatori più liberi di dedicarsi alle urgenze non gestibili da remoto e migliorando l’efficienza del servizio sanitario. Oggi la prospettiva è cambiata: non si tratta più di generico miglioramento delle prestazioni fornite, ma di imprescindibile necessità.
L’utilizzo di piattaforme tecnologiche come app e chatbot, insieme alla fornitura dei dispositivi di protezione individuale, appare essenziale per contenere il numero delle vittime. Come tutti gli stati di bisogno estremo, anche il nostro è vulnerabile rispetto a rischi insidiosi: la possibilità che l’interpretazione di questa forma di sviluppo venga equivocata è alta.
La disperata ricerca di soluzioni capaci di traghettarci verso acque meno agitate espone al pericolo di credere che l’offerta di servizi di telemedicina possa essere ridotta alla mera implementazione di una piattaforma. La realtà vuole che l’attuazione di iniziative utili implichi invece investimenti di risorse economiche, intellettive e organizzative notevoli da parte delle istituzioni e degli operatori a diverso titolo interessati. Mantenendosi sulla frequenza del crudo realismo, occorre sottolineare anche che la telemedicina non è universalmente applicabile, ma devono essere isolati ed esclusi in fase iniziale tutte le possibili controindicazioni.
Fra queste i pazienti in condizioni cliniche preoccupanti, che richiedono un esame obiettivo completo e, verosimilmente, l’esecuzione di procedure non dispensabili da remoto; ma anche i malati in stato confusionale o con poca dimestichezza con le nuove tecnologie. In ultima istanza, uno sguardo più generale sul panorama della Sanità così come si staglia in queste settimane. Con i servizi sanitari già al collasso e l’impossibilità di prevedere la durata dell’emergenza, il rischio che i pazienti cronici rimangano sprovvisti di assistenza è elevato.
Per fornire cure ai malati oncologici, affetti da patologie neuromuscolari o da altri gravi disturbi cronici, numerose strutture sanitarie hanno organizzato consulenze da remoto. Strutture e organizzazioni specializzate nella cura del cancro e delle patologie degenerative, come molti Irccs e società scientifiche, offrono portali accessibili dal loro sito internet che associano agli scambi telefonici fra specialisti e pazienti strumenti di dialogo virtuale e per la redazione del diario clinico e il trasferimento dei referti.
La telemedicina in Europa
Le imprese italiane impegnate nello sviluppo delle soluzioni di teleconsulto e teleassistenza si stanno confrontando con le omologhe europee di qualche passo più avanti in questa direzione per trarre spunti e accelerare i percorsi con scelte già dimostratesi virtuose.
Un caso paradigmatico è quello della start-up irlandese Wellola, sostenuta da Enterprise Ireland, l’ente governativo per l’export e l’innovazione, primo venture capitalist d’Europa e secondo al mondo. Wellola ha messo a disposizione del sistema sanitario irlandese la piattaforma di teleconsulto HSE Covid 19 Portal, una app di facile fruibilità che i pazienti possono scaricare gratuitamente per accedere a video-consulenze, ottenere prescrizioni o prenotazioni, raccogliere e organizzare dati clinici.
Si tratta di un momento impossibile da definire ideale, data la tragica congiuntura, ma che può essere a ragion veduta ritenuto opportuno per un’azione da parte delle realtà operanti nel settore, anche alla luce della grande propensione agli investimenti che caratterizza il periodo. Start-up avviate come la britannica Babilon Health e la francese Doctolib hanno fatto il pieno nel corso dei recenti round di funding, raccogliendo rispettivamente 630 milioni di euro e 260 milioni di dollari.
Le statistiche confermano l’impressionante numero di accessi ai servizi e il grado di soddisfazione espresso dagli utenti, a testimonianza del fatto che i pazienti non solo hanno un gran bisogno di digital health, ma sono anche pronti per usufruirne opportunamente.
Riferimenti
Video consultations for Covid-19, T. Greenhalg et al., The BMJ, March 2020
Monica Torriani