Il percorso del paziente, dall’individuazione dei candidati alla terapia CAR-T alla sua somministrazione (e successiva dimissione), prende il nome di Brain-to-Vein. Ai fini del buon esito del trattamento e della minimizzazione degli effetti collaterali, è importante ridurre il più possibile il tempo richiesto per completare la complessa sequenza di passaggi.
Ne parliamo con Federica Sorà, oncoematologa del Policlinico Gemelli di Roma.
Nel percorso che porta alla somministrazione delle terapie CAR-T ai pazienti con tumore del sangue, uno dei passaggi chiave per il successo di questo approccio innovativo è rappresentato dall’ottimizzazione dei tempi che passano tra l’individuazione del paziente candidato e l’infusione della terapia e il successivo follow-up.
Si tratta del cosiddetto percorso Brain-to-Vein (BtV), che richiede la stretta coordinazione tra centri referral, responsabili per l’individuazione dei pazienti e la somministrazione delle eventuali terapie bridging, e i centri hub preposti alla somministrazione del trattamento CAR-T, quest’ultima suddivisa nelle fasi di leucaferesi, infusione e dimissioni.
All’interno del percorso BtV, la fase che porta dalla leucaferesi all’infusione della terapia è detta Vein-to-Vein (VtV) e prevede anche il passaggio delle cellule ottenute dal paziente dal sito produttivo, spesso all’estero, dove vengono ingegnerizzate.
La riduzione del tempo del percorso BtV permette anche di ottimizzare le risorse della quarantina di centri specializzati in ematologia e oncoematologia autorizzati alla somministrazione delle CAR-T su base regionale.
Abbiamo intervistato la prof.ssa Federica Sorà, oncoematologa del Policlinico Gemelli di Roma, per approfondire gli aspetti principali legati all’ottimizzazione del percorso Brain-to-Vein.
Fin dall’introduzione delle terapie CAR-T si è sempre parlato molto dei possibili effetti collaterali, anche gravi e potenzialmente mortali, legati alla loro somministrazione. Che bilancio si può trarre in proposito, a cinque anni dall’introduzione di questa terapia avanzata nei reparti clinici?
Credo che il bilancio sia assolutamente positivo, abbiamo imparato a riconoscere sempre meglio gli effetti immediati che meritano particolare attenzione. Abbiamo imparato anche a ottimizzare il contenimento delle eventuali sindromi a breve termine, quali per esempio la sindrome da rilascio di citochine (CRS) o la sindrome da neurotossicità associata alle cellule effettrici immunitarie (ICANS).
Rimane ancora da ottimizzare il trattamento della sindrome HLH-like, evento molto raro, ma sul quale si stanno portando avanti studi che consentano una corretta diagnosi e un adeguato trattamento. Negli anni abbiamo anche analizzato gli eventi avversi, come la citopenia prolungata o l’ipogammaglobulinemia, che necessitano di una gestione consapevole.
Per quanto riguarda le neoplasie linfoproliferative e le leucemie secondarie, i dati mi sembrano essere stati abbastanza ben analizzati: non c’è un ruolo, se non forse in un singolo caso in patologie diverse dal linfoma della leucemogenesi dovuta alla transfezione.
Le CAR-T sono quindi un’ottima opzione terapeutica, anche se non prive di “effetti collaterali”. Questo va tenuto in considerazione, parlando di una popolazione di pazienti che è comunque “chemorefractory” o con fallimento precoce da prima linea di terapia, con una sopravvivenza insoddisfacente se non sottoposta a trattamento CAR-T.
I dati di letteratura indicano che è importante ridurre il più possibile il cosiddetto tempo Vein-to-Vein tra leucaferesi e infusione della terapia, per aumentare la possibilità di esiti positivi della stessa e per prevenire al contempo il più possibile gli effetti collaterali. Quali sono le motivazioni alla base di queste modalità organizzative?
Essendo malati chemorefrattari o recidivati precocemente dalla prima linea, più passa il tempo più la malattia “cresce” come volume e questo aumenta l’incidenza di eventi avversi e dà esiti negativi della terapia.
In questi anni, per migliorare questa situazione abbiamo ottimizzato il referral all’interno delle varie situazioni regionali e macroregionali, cercando di migliorare sempre più la comunicazione tra i centri hub e spoke della rete.
Abbiamo cercato anche di analizzare quelle che possono essere le criticità; in alcune Regioni ci sono, per esempio, problemi di raccolta aferetica o di posti letto.
Si tratta di qualcosa che per fortuna tocca poco la nostra Regione, il Lazio, che è quella che dal punto di vista organizzativo è stata forse più virtuosa di altre, grazie a meeting periodici e alla disponibilità di posti letto, che nel nostro centro è molto alta.
Anche le aziende produttrici, soprattutto alcune, hanno cercato di ottimizzare i passaggi che le vedono impegnate, portandoci ogni anno nuovi dati sui giorni di preparazione e del percorso VtV dalla spedizione del prodotto leucoaferetico al rientro dell’unità ingegnerizzata, con tempi sempre minori, fino meno di venti giorni.
Non meno importante, ma finora meno discusso, è il tempo Brain-to-Vein, che comprende anche le fasi preliminari di identificazione, consiglio e referaggio del paziente al centro hub più vicino (brain-to-apheresis). Perché è importante minimizzare anche la durata di queste fasi preliminari?
Per gli stessi motivi, si rischia di non avere l’inclusione del paziente all’interno del processo CAR-T a causa di una malattia rapidamente evolutiva e di una crescita troppo importante del tumore. I criteri Aifa, per esempio, hanno stabilito che ci debba essere una funzionalità d’organo minima per l’inclusione del paziente, anche passando solo pochi giorni potrebbe essere troppo tardi per accedere alla terapia CAR-T.
Il tempo BtV è meno calcolabile. Quello che è stato fatto per cercare di sensibilizzare la popolazione dei colleghi, soprattutto referral e sia intra-centro che extra-centro, è proprio finalizzato a ottimizzare il riferimento di alcuni pazienti, anche in presenza di dubbi sulla eleggibilità a CAR-T.
Mi viene in mente, per esempio, il linfoma mantellare, in cui l’identificazione di un caso ad alto rischio, già in seconda linea, può far presagire la necessità di segnalare il paziente in modo che non appena dovesse verificarsi l’eventuale fallimento, sia già conosciuto dal centro che può offrirgli in breve la terapia CAR-T.
Vi è una serie di ottimizzazioni, soprattutto a livello di referral e di preparazione dell’ipotetico paziente, che permettono di migliorare il tempo Brain-to-Vein. Siamo comunque in linea con quanto descritto nello studio francese DESCAR-T, che ha un tempo di osservazione più prolungato rispetto all’Italia.
Quali sono le criticità da considerare nella messa a punto dell’intero percorso del paziente, sia rispetto all’interazione, collaborazione e comunicazione tra centri spoke e hub che tra i vari centri hub localizzati nelle varie zone del territorio nazionale e/o regionale, e quali i suggerimenti per risolverle?
Purtroppo, le criticità sono differenti da centro a centro, o meglio da Regione a Regione. L’Italia è divisa in Regioni che sono come dei piccoli Stati, ognuna ha la sua realtà. Entrare all’interno di queste realtà fa sì che si possa migliorare il referral, arrivare a tutti i centri e far sì che si possa strutturare un percorso favorevole al paziente, anche dal punto di vista della gestione pratica.
In alcuni ambiti, per esempio, il paziente può trovare difficoltà a soggiornare per più giorni vicino al centro hub che somministra la terapia CAR-T: una cosa che viene ancora richiesta, anche se pian piano modificata.
Deve esserci un’ottimizzazione di tutta questa rete, se ne sta parlando negli ultimi due anni. Dovrebbe esserci un potenziamento di questi collegamenti, anche nei centri raccolta, una chiara individuazione di modo che una volta stressata l’importanza della riduzione dei tempi d’attesa, si possa produrre il migliore effetto al paziente in termini di esiti.




