Nel mondo occidentale le malattie cardiovascolari rimangono la causa principale di mortalità, disabilità e aumento dei costi sanitari, mentre in Italia sono responsabili del 34,8% di tutti i decessi.
Nonostante sia noto che il principale fattore di rischio per il loro sviluppo è l’elevato livello di colesterolo Ldl, quasi la metà dei pazienti già colpiti da un infarto, inclusi coloro che stanno assumendo statine ad alta intensità, non riesce a raggiungere l’obiettivo stabilito dalle linee guida.
Un’arma in più per arrivare al target fissato è evolocumab, un inibitore della proteina della convertasi subtilisina kexin tipo 9 (Pcsk9).
In proposito, sono stati pubblicati su Circulation e presentati al congresso della Società Europea di Cardiologia (European society of cardiology, Esc) del 2022 i nuovi dati di Fourier-ole, studio multicentrico, in aperto, di estensione open label di Fourier, studio di fase 3, randomizzato, multinazionale, in doppio cieco, condotto su 6.635 pazienti con malattia cardiovascolare aterosclerotica, di cui 3.355 avevano assunto il principio attivo e 3.280 il placebo.
Due ricerche e un’analisi addizionale
In particolare, Fourier-ole è composto da due ricerche: la prima è stata realizzata su 5.035 partecipanti monitorati per 5 anni, la seconda su 1.600 seguiti per 4,6 anni. In entrambe, i pazienti hanno assunto il principio attivo.
Queste sperimentazioni hanno confermato che evolocumab ha ridotto il colesterolo Ldl, con l’80% dei pazienti che ha raggiunto i livelli consigliati. Confermate anche la sicurezza a lungo termine e la tollerabilità, fino a 8,4 anni.
Un’analisi addizionale ha, inoltre, evidenziato un tasso inferiore di eventi cardiovascolari maggiori, incluso il decesso, nei pazienti che in origine, nello studio Fourier, avevano ricevuto evolocumab rispetto a coloro che avevano, invece, assunto il placebo.
«Ciò dimostra l’importanza di un inizio precoce della terapia», ha commentato Piera Angelica Merlini, dirigente della struttura complessa di Cardiologia dell’ospedale Niguarda di Milano.
Lo studio italiano
Questi risultati positivi sono stati confermati anche da uno studio di real world evidence condotto dai ricercatori dell’Università Federico II di Napoli su 798 pazienti con malattia cardiovascolare ischemica o con ipercolesterolemia familiare, in terapia con un inibitore di Pcsk9 da almeno sei mesi.
I dati hanno mostrato una riduzione media dei livelli di colesterolo del 64%, che si è mantenuta nei 19 mesi di follow-up. L’aderenza alla terapia è risultata superiore al 95%, mentre l’interruzione del farmaco si è verificata solo nel 3% dei casi.
«La ricerca dimostra che i pazienti, soprattutto quelli ad alto rischio cardiovascolare, mantengono un’elevata compliance alla terapia anche al di fuori degli studi clinici, quando devono cioè autogestire il trattamento», ha dichiarato Pasquale Perrone Filardi, autore dello studio e direttore della scuola di specializzazione in Malattie dell’apparato cardiovascolare dell’Università partenopea.
«Un risultato importante, soprattutto considerando che nel caso di altri farmaci, per esempio le statine, un’ampia percentuale di assistiti, fino al 50%, abbandona la terapia a un anno dalla prescrizione».
L’elevata aderenza è importante perché si riflette sull’efficacia.
«Se questo trattamento viene prescritto in aggiunta ai medicinali orali convenzionali, circa tre quarti dei pazienti ad alto rischio cardiovascolare riescono a raggiungere il target di colesterolo stabilito dalle linee guida correnti», quantifica Perrone Filardi.
«Il problema è che, purtroppo, gli inibitori di Pcsk9 sono ancora utilizzati in maniera non ottimale. In Italia gli assistiti attualmente in terapia sono, infatti, circa 30 mila, nonostante la quota stimata di pazienti potenzialmente eleggibili si aggiri intorno ai 100 mila».
Paola Arosio