Le terapie a bersaglio molecolare, dirette in prevalenza a proteine mutate hanno cambiato la storia naturale di alcune forme di tumori in termini di risposta clinica, sopravvivenza e qualità di vita.
Efficaci e performanti. Le target therapy, terapie a bersaglio molecolare, in prevalenza dirette a proteine mutate, introdotte nella pratica clinica intorno agli anni 2000, hanno cambiato lo scenario di cura per diverse patologie oncologiche, tra cui melanoma e tumore del polmone, in specifici setting di malattia, queste terapie sono state impiegate invece a partire dal 2010 circa. Migliorate sensibilmente per il paziente anche sopravvivenza e qualità di vita.
In Italia si stimano oltre 13 mila nuovi casi annui di melanoma, con frequenza maggiore nell’uomo, in crescita negli under 40-50, complice prevalente la scorretta e non protetta esposizione al sole, che resta il principale fattore di rischio.

«Nella maggior parte dei casi», spiega Riccardo Marconcini, dirigente medico presso l’Oncologia Medica 2 dell’AOU Pisana, «si tratta di melanomi “sottili” che necessitano solo di follow-up ravvicinati e una minoranza di casi (inferiore al 15-20%), già metastatici.
Esistono poi rarissime forme di melanoma su base genetica, in gran parte dovuti alla mutazione CDKN2A, che richiedono monitoraggio specifico: visita genetica in ambulatori specializzati e programmi di screening mirati».
Le target therapy
Questi trattamenti hanno cambiato la storia naturale del melanoma, arricchendo l’armamentario terapeutico per la malattia avanzata/metastatica di nuovi importanti strumenti e aiutando a prevenire l’insorgenza delle metastasi, dopo rimozione chirurgica, in pazienti con melanoma con caratteristiche di rischio elevato.
«La rivoluzione è stata l’identificazione di mutazioni a carico del gene che codifica la proteina BRAF, coinvolta in vari processi di evoluzione del melanocita in melanoma, in particolare nel 50% dei melanomi con mutazione V600. Bersaglio su cui sono state sviluppate terapie target, ovvero BRAF inibitori e in parallelo MEK inibitori, altri farmaci target diretti contro un’ulteriore specifica proteina che viene attivata da BRAF. Questi farmaci hanno dimostrato efficacia nell’indurre la morte cellulare del melanocita, quindi nello spegnere il rischio di replicazione e nel contribuire al controllo della malattia».
Le opzioni di trattamento combinato
Nell’ultimo decennio sono stati introdotti nella pratica clinica, dapprima i soli BRAF inibitori in diverse formulazioni.
«L’apripista è stato vemurafenib, seguito da dabrafenib e, in tempi più recenti, encorafenib. Tuttavia, i BRAF inibitori usati in monoterapia nella malattia metastatica hanno fatto osservare iniziale rapida risposta con riduzione dimensionale della malattia e allungamento della sopravvivenza con una mediana inferiore a 10 mesi, seguita da rapida progressione per insorgenza di meccanismi di resistenza della malattia acquisiti in corso di trattamento.
L’associazione dei MEK inibitori a BRAF inibitori, in diverse possibili combinazioni (vemurafenib + cobimetinib, o dabrafenib + trametinib, o encorafenib + binimetinib), hanno cambiato lo scenario ottenendo risposta radiologica del 70-80% dei pazienti trattati, aumentando sensibilmente la sopravvivenza libera da progressione di malattia di circa 12-15 mesi con circa il 30% di pazienti metastatici vivi a circa 5-7 anni dall’inizio della terapia».
In relazione ai risultati osservati nella malattia metastatica, tali terapie sono state applicate anche in adiuvante, cioè in prevenzione di eventuali recidive o comparsa di metastasi a distanza nei pazienti con melanoma ad alto rischio di ricaduta come coloro con interessamento dei linfonodi locoregionali riscontrato post asportazione: la combinazione dabrafenib + trametinib ha mostrato all’aggiornamento recente dello studio di fase III di confronto con placebo, con un follow-up mediano di circa 44 mesi, un vantaggio in sopravvivenza libera da recidiva (tasso a 3 anni del 59% per la combinazione contro il 40% del placebo), con riduzione del rischio relativo di recidiva o morte del 51% (HR=0,49; 95% CI 0,40-0,59). Dati confortanti rispetto alle attese di pochi mesi di vita di qualche decennio fa.
Accettabile anche la tossicità al trattamento, correlata in prevalenza a piressia saltuaria nei primi 3 mesi e ad altri eventi avversi, più rari e sporadici, gestibili farmacologicamente, con alto impatto sul miglioramento della qualità di vita.
In via di sviluppo nuove terapie target
La ricerca punta a identificare nuovi potenziali bersagli molecolari per terapie target.
«In particolare, si lavora allo sviluppo di inibitori per la mutazione NRAS, presente nel 15-20% dei pazienti con melanoma. Alcuni studi sono già in fase III e l’auspicio è che questi farmaci giungano presto alla pratica clinica.
In parallelo, si stanno sviluppando immunoterapie che hanno mostrato efficacia di risposta e allungamento della sopravvivenza in alcune forme di melanoma. Allo stato attuale, l’immunoterapia si intreccia con le terapie target, con l’obiettivo di guadagnare sempre di più anni di vita mantenendo al contempo una buona qualità di vita».
Tumore al polmone
Le terapie target sono efficaci anche in alcuni tipi di neoplasie polmonari: delle 45 mila nuove diagnosi annuali, di cui il 70% avviene in uno stadio di malattia avanzata, il 50% riguarda carcinomi non squamosi, di cui circa il 30-35% è trattabile con terapie a bersaglio molecolare.

«Oggi sono note 8 mutazioni genetiche, legate all’alterazione di specifiche proteine, quali EGFR, ALK, KRAS, BRAF, ROS1, RET, MET, HER2 su cui è possibile agire efficacemente con trattamenti mirati», dichiara Alessandra Bearz, responsabile dell’Unità Tumore del Polmone e della Pleura presso il CRO-Irccs di Aviano.
«Fino a pochi anni fa venivano ricercate solo un paio di mutazioni, oggi se ne cercano circa 8; l’auspicio è arrivare a identificare nuovi bersagli molecolari che possano diventare target farmacologici efficaci.
I farmaci a bersaglio molecolare hanno cambiato la storia naturale di questi tumori mutati, in termini di stabilizzazione o regressione volumetrica della malattia, osservata in circa l’80-90% dei pazienti, a fronte di solo il 50% ottenibile con la chemioterapia, e di mantenimento del beneficio, variabile dai 12-18 mesi fino agli 8-10 anni nei contesti migliori associati in prevalenza alle mutazioni di ALK. Prospettive importanti, rispetto ai soli 6-10 mesi di durata del beneficio clinico delle passate terapie».
Successo terapeutico e possibilità di trattamento con terapie target dipendono anche dalla natura molecolare del tumore e dalle caratteristiche del paziente (in particolare, se fumatore o no) in cui la malattia si sviluppa.
«Il tumore non a piccole cellule del non fumatore di solito presenta un’unica mutazione genetica, presente in tutte le cellule, permettendo alle terapie target di agire su tutta la massa tumorale con uguale efficacia. Si tratta dunque di tumori di più facile governo e controllo.
Di contro, il microcitoma, prevalente nel fumatore, è caratterizzato da una pluralità di mutazioni indotte da agenti mutageni, situazione che si accompagna a caratteristiche biologiche di particolare aggressività e a un’efficacia delle terapie notevolmente più ridotta nel tempo. Il microcitoma polmonare resta la forma tumorale polmonare con prognosi peggiore».
L’impegno della ricerca
Gli attuali sforzi sono orientati all’identificazione di nuove mutazioni oncogeniche e allo sviluppo di nuove terapie target, ma anche alla comprensione dei meccanismi che nel tempo, similmente a quanto accade con gli antibiotici, portano allo sviluppo di meccanismi di resistenza alle terapie target e, non ultimo, a migliorare l’efficacia della biopsia liquida.
«L’identificazione di DNA tumorale nel sangue consente di evitare procedure di biopsia diretta del tessuto tumorale, che possono essere fastidiose e pericolose per i pazienti, permettendo l’analisi mutazionale anche quando la biopsia non è perseguibile; il perfezionamento della profondità e dell’attendibilità delle tecniche di biopsia liquida è una delle sfide del futuro in oncologia».
Il ruolo della farmacia ospedaliera
La Farmacia Ospedaliera è cruciale nel governo delle target therapy, che spesso richiedono procedure di approvvigionamento, conservazione e somministrazione complesse.

«La Farmacia Ospedaliera», spiega Emanuela Omodeo Salé, direttrice della Farmacia Ospedaliera dell’Irccs Istituto Europeo di Oncologia e del Centro Cardiologico Monzino Irccs di Milano, «deve garantire la corretta gestione di queste terapie, quindi la distribuzione sicura e l’ottimizzazione di utilizzo. Tale governance si basa sulla stretta sinergia che si deve creare tra Farmacia e clinici per assicurare ai pazienti il miglior beneficio dai trattamenti.
In questa visione, anche il ruolo del farmacista è sensibilmente cambiato, passato da “semplice” ospedaliero a clinico, con nuove competenze ed expertise, potendo offrire un valido supporto nella presa in carico del paziente con vantaggi misurabili, da studi di letteratura, economici e di outcome. Ciò grazie, per esempio, al miglioramento dell’informazione, all’ottimizzazione e monitoraggio della terapia farmacologica. Tuttavia, è necessario fare cultura su questo nuovo ruolo del farmacista ospedaliero».
In Italia ci sono margini importanti di miglioramento, anche senza incrementi di personale, ma con un efficace riposizionamento e riorganizzazione dei servizi in quanto i pazienti oncologici hanno maggiori necessità di essere seguiti e attentamente monitorati per limitare gli effetti collaterali dei farmaci e per gestire al meglio la complessità degli schemi terapeutici.
In questo contesto è fondamentale la profilazione genetica e molecolare estesa, come dimostra anche l’approvazione di FDA dei “companion diagnostics” test, differenziati per terapie targeted, per offrire al paziente il migliore beneficio dal trattamento.
Il farmacista ospedaliero affianca il medico nella gestione del paziente
È sensibilmente cambiato anche il paradigma per la definizione della cura, non più basata sul modello istologico (localizzazione e natura del tumore, quindi scelta terapeutica), bensì in prevalenza su un modello mutazionale che partendo dall’istologia e dalla morfologia del tumore, ricerca le alterazioni molecolari che prescindono dalla sede d’origine della malattia. Mutazioni che costituiranno il bersaglio terapeutico del trattamento, sfruttando strategie personalizzate e di precisione, definite sul singolo individuo.
«Questo approccio richiede tecniche genetiche complesse di profilazione molecolare, tra cui il sequenziamento NGS, utilizzato per esempio in pazienti con NSCLC o in coloro che hanno esaurito le linee standard di terapia, identificando mutazioni che possono fungere da bersaglio per terapie innovative. Ciò consente di trattare anche forme in stadio avanzato in pazienti ancora in buone condizioni generali e nel rispetto della qualità della vita della persona.
Casi clinici di questo tipo vengono discussi durante il Molecular Tumor Board in cui il farmacista ospedaliero può contribuire a indirizzare le possibili scelte terapeutiche, renderle più appropriate e sostenibili. Per esempio, in caso di terapie orali, guidando il paziente nel suo percorso di cura affinché sia (in) formato su ciò che deve assumere, a favore di una migliore aderenza alla terapia, senza sprechi clinici ed economici».
Ottimizzare la governance della cura
Non ultimo, nella gestione del farmaco il farmacista si (pre)occupa di ottimizzare anche i costi attraverso acquisti centralizzati per la riduzione della spesa farmaceutica sulla base di budget appropriati, di monitorare e analizzare i consumi per garantire un uso appropriato del farmaco, con un globale benefico della qualità del servizio offerto ai pazienti, in ottica di sostenibilità e accessibilità.
«In sintesi, il farmacista ospedaliero può agire efficacemente sulla governance della cura con una attenta declinazione territoriale dei percorsi già definiti e nel disegno di nuovi PDTA e un coinvolgimento attivo all’interno di team multiprofessionali finalizzato a un approccio multidisciplinare al paziente».



