In occasione della giornata mondiale delle epatiti, celebrata il 28 luglio, lo slogan scelto dall’OMS per l’edizione 2025 è stato “Hepatitis: Let’s Break It Down”.
Sebbene siano condizioni prevenibili, trattabili e, nel caso dell’epatite C, curabili, le epatiti virali sono “ampiamente sottostimate” e causano danni al fegato, aumentando così il rischio di sviluppare scompenso epatico, cirrosi, cancro.
Si conta che ogni anno le epatiti virali causino circa 1,3 milioni di morti nel mondo.
In Italia è previsto un programma di screening gratuito per l’infezione da HCV dedicato alle persone che vengono seguite dai servizi delle dipendenze, ai detenuti e alla popolazione generale nata tra il 1969 e il 1989.
I dati raccolti al 30 giugno 2024 hanno evidenziato che su 2 milioni di persone sono state rilevate quasi 15 mila infezioni attive da epatite C. Solo il 12% della popolazione generale target ha effettuato il test dell’epatite C di primo livello. Tra le Regioni che a oggi hanno attivato lo screening la copertura più alta (40,3% della popolazione generale target) è stata riscontrata in Emilia-Romagna.
Rimangono quindi ancora ampie fasce di popolazione, soprattutto quelle più fragili o che hanno difficoltà a essere raggiunte dal SSN, o ancora quelle dove si stima una più alta prevalenza di infezione, che sono escluse dalla possibilità di essere diagnosticate e curate.
L’infezione è spesso asintomatica, per questo è fondamentale lo screening. Antonio Gasbarrini, professore ordinario di Medicina Interna della Università Cattolica e direttore scientifico della Fondazione Policlinico Universitario Gemelli Irccs di Roma, ha commentato: «in Italia si stimano ancora oltre 300 mila persone infette da epatite C, asintomatiche e pertanto non diagnosticate.
Uno screening allargato della popolazione generale sull’epatite C porterebbe a una riduzione in 10 anni di circa 5.600 decessi, 3.500 epatocarcinomi e/o oltre 3.000 scompensi epatici, rispetto a uno screening meno efficiente o semplicemente a una diagnosi tardiva».
Al fine di allargare l’aderenza allo screening è nato il progetto Test in the city.
L’iniziativa di screening e linkage to care è promossa da Gilead Sciences in collaborazione con la Rete Fast Track Cities italiane e Relab, che a oggi coinvolge 14 città ed è rivolta alle popolazioni migranti e a persone che utilizzano sostanze.
«L’idea nasce dalla necessità di avvicinare queste persone nei luoghi che frequentano così da rendere più agevole l’esecuzione dei test rapidi per epatite C e B, e quindi anche delta, e HIV», ha spiegato Paolo Meli, pedagogista, presidente della Società Cooperativa Sociale Don Giuseppe Monticelli di Bergamo e coordinatore nazionale di Test in the City.
«Ognuna delle città aderenti al progetto offre test gratuiti nei più svariati contesti: ambasciate e consolati, eventi sportivi, luoghi di culto, nei Centri Provinciali per l’Istruzione degli Adulti, nei Centri di accoglienza straordinaria».
Sono stati eseguiti finora circa 4.000 test per HIV, HCV ed HBV. Il 2,48% circa delle persone testate è risultato positivo ad una o più infezioni; le persone testate per circa il 60% avevano un’età compresa tra i 20 e i 40 anni e per quasi i due terzi erano di sesso maschile.
Nei casi di positività, le persone sono state accompagnate ad un centro di cura per effettuare un esame più specifico e, una volta confermato l’esito, in quasi tutti i casi è stato attivato un percorso di presa in carico. Per coloro che sono risultati positivi all’HBV sono stati effettuati o si stanno tutt’ora effettuando test per l’HDV.
Miriam Lichtner, professore ordinario di Malattie Infettive dell’Università Sapienza di Roma ha dichiarato: «è necessario collaborare con le comunità che vivono nei territori per capire quali possono essere le modalità e i luoghi più adatti per proporre lo screening, uno screening partecipativo che miri alla presa in carico e alla lotta allo stigma.
Grazie alla provata efficacia dei test rapidi, poi, oggi possiamo organizzare l’attività anche fuori dai contesti sanitari e, sempre insieme a mediatori culturali o a rappresentanti della comunità, garantire il counseling immediato e quindi favorire la presa in carico nei centri di cura di coloro che risultano positivi, abbattendo le barriere e facilitando l’accesso al SSN».
l’Italia è stata uno dei primi Paesi a pianificare una strategia per raggiungere l’obiettivo di eradicare l’infezione entro il 2030 secondo quanto indicato dall’OMS. Tuttavia, il raggiungimento dell’obiettivo è lontano.
«È evidente che si deve fare di più: sappiamo che nei SERD e nelle carceri la prevalenza è maggiore ed è quindi lì che dobbiamo continuare ad effettuare i test e ad estenderli su tutto il territorio nazionale», ha spiegato Stefano Fagiuoli, direttore dell’Unità complessa di Gastroenterologia, epatologia e trapiantologia dell’ASST Papa Giovanni XXIII di Bergamo e professore di Gastroenterologia presso il dipartimento di Medicina e chirurgia dell’Università Milano Bicocca.
«È però importante anche favorire i test opportunistici negli ospedali, proponendo il test ai pazienti ricoverati anche in reparti diversi dalla gastroenterologia o dall’infettivologia o ancora coinvolgere i medici di medicina generale per capire quanti dei loro assistiti hanno aderito allo screening e proporlo a quelli che non hanno ancora aderito o non hanno mai effettuato il test».




