Ipertensione resistente, l’Ospedale San Pietro Fatebenefratelli centro di eccellenza nel trattamento

Francesco Monti

L’ipertensione arteriosa coinvolge a livello globale quasi 1,3 miliardi di soggetti, di cui circa metà non sa di esserlo o non riceve trattamenti. Una percentuale dei pazienti in trattamento sviluppa una resistenza alle terapie farmacologiche, con livelli di pressione che rimangono comunque troppo elevati, esponendoli a un aumentato rischio cardiovascolare.

Un trattamento definitivo e sicuro per questo tipo di patologia è offerto dall’Ospedale San Pietro Fatebenefratelli di Roma, un centro d’eccellenza per la denervazione renale.
Abbiamo approfondito il tema con il prof. Francesco Monti, cardiologo interventista a capo dell’Unità Operativa Complessa Cardiologia e Cardiologia Interventistica dell’ospedale capitolino.

Secondo i dati OMS, l’ipertensione arteriosa interessa 1,28 miliardi di persone nel mondo, di cui circa la metà sono ignare della patologia o non ricevono trattamenti.
Circa un iperteso in trattamento su dieci (quasi 100 milioni nel mondo) è resistente alla terapia con diverse classi di farmaci ipertensivi, con conseguenze invalidanti.

Abbiamo approfondito l’argomento con il prof. Francesco Monti, cardiologo interventista, a capo dell’Unità Operativa Complessa Cardiologia e Cardiologia Interventistica dell’Ospedale San Pietro Fatebenefratelli di Roma, un centro all’avanguardia nel trattamento dell’ipertensione resistente.

L’ipertensione resistente

Secondo i dati della Società Italiana di Ipertensione Arteriosa, solo nel Lazio il 33% della popolazione soffre di ipertensione arteriosa, con il 19% degli uomini e il 13% delle donne in condizione di rischio.
In alcuni casi può verificarsi un’ipertensione resistente al trattamento farmacologico, laddove il valore pressorio risulti particolarmente elevato (cioè superiore a 140/90 mmHg) nonostante la terapia.
Si parla allora di ipertensione arteriosa resistente, una malattia cronica particolarmente pericolosa poiché associata a un aumentato rischio cardiovascolare, con conseguente maggiore esposizione a ictus, infarto, scompenso cardiaco e nefropatia.

Scarse consapevolezza e compliance ai trattamenti

«L’ipertensione resistente non interessa una popolazione in particolare e non ha cause specifiche. Si verifica in circa il 10% dei pazienti in trattamento, che prendono anche 3-4 classi di farmaci.
Al di là dei fenomeni di resistenza, un problema grave relativo ai pazienti ipertesi è dato dalla loro scarsa aderenza terapeutica», ha sottolineato il prof. Monti.

«Soprattutto per i pazienti più giovani è difficile accettare di essere affetti da una patologia cronica che implica un trattamento per tutta la vita. Tuttavia, promuovere una maggiore consapevolezza rispetto al problema è determinante perché in questo ambito l’aderenza terapeutica è una sfida che stiamo perdendo».

«Proprio rispetto ai giovani sussiste un equivoco. Molti pensano che un valore pressorio molto elevato (per esempio, 180/100 mmHg) possa essere un fenomeno isolato, magari causato dallo stress, anche perché a una successiva misurazione la pressione potrebbe essere tornato in un range di accettabilità. Così interrompono le misurazioni e ignorano il problema».

Ipertensione prolungata: rischi e complicanze

Le conseguenze di una pressione a lungo troppo alta possono essere disastrose.
«Alcuni ignorano il problema ipertensivo anche per 10-15 o addirittura 20 anni, con la conseguenza che quando si rivolgono a uno specialista l’intervento risulta limitato e i danni ormai irreversibili, come infarto del miocardio, ictus o problemi più subdoli, come la demenza».
La prevenzione attraverso corretti stili di vita e alimentari e diagnosi precoce e l’intervento tempestivo sono elementi cruciali.

SIIA indica che almeno un terzo degli ipertesi già in terapia va considerato resistente al trattamento e che questa popolazione di pazienti mostra un rischio tre volte maggiore di andare incontro a eventi cardiovascolari gravi rispetto ai soggetti con ipertensione controllata.
Inoltre, sono maggiori le probabilità di soffrire di diabete, nefropatia cronica e obesità.

A sua volta, la riduzione della pressione arteriosa è particolarmente importante nei pazienti in politerapia, perché migliora la prevenzione di complicanze secondarie come infarto del miocardio, ictus ed emorragia cerebrale.

Denervazione renale in caso di resistenza

Nei casi d’ipertensione arteriosa refrattaria alla terapia farmacologica, da alcuni anni si ricorre a denervazione renale, «una procedura mininvasiva della durata di circa 40 minuti e dai pochi effetti collaterali, che risolve il problema in modo definitivo», ha proseguito il prof. Monti.

«Si interviene sui gangli nervosi renali responsabili dell’iperstimolazione delle arterie renali e della conseguente pressione arteriosa elevata. S’inserisce un catetere spiraliforme molto sottile che permette di operare sui gangli erogando energia a radiofrequenza ed eseguendo la termoablazione dei plessi renali disposti attorno alle arterie.

La procedura consente una riduzione significativa dei valori pressori, mantenendo inalterata la funzionalità del rene e consentendo di ridurre la quantità di farmaci antipertensivi», ha spiegato il prof. Monti.
«Oggi si prevede una notte di degenza per via dell’inserimento del catetere per via femorale, ma a breve è atteso un dispositivo per via radiale che, consentendo l’inserimento dal braccio, permetterà di eseguire la procedura in day hospital».

Dati a tre anni degli ultimi studi hanno confermato l’efficacia di questa soluzione che è sicura per i pazienti e impatta positivamente su benessere psicologico e qualità di vita.